Robin Hood, quando il potere era una questione di coraggio

CannesL’invasione dell’Inghilterra come l’invasione della Francia in Salvate il soldato Ryan. Ecco Robin Hood di Ridley Scott, film fuori concorso che ieri ha inaugurato il Festival di Cannes. E che finisce come cominciava Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, che una dozzina d’anni fa aprì la Mostra di Venezia, cioè con un’invasione dal mare. Ma in Robin Hood la prospettiva è capovolta: qui gli invasi, non gli invasori, sono i buoni. E se i fatti storici narrati sono separati da secoli e secoli, le carene dei mezzi da sbarco sono simili, troppo simili per non suggerire la parodia dello sbarco angloamericano in Normandia, a metà ’900, con quello medievale e francese in Inghilterra.
Basterebbe questo dettaglio dei francesi mostrati come cattivi in apertura di una delle maggiori manifestazioni culturali della Francia per capire che a Cannes si trova spazio senza pretendere l’allineamento dei film agli interessi o anche solo all’immagine dello Stato ospitante.
E non è questione di bandiera nemmeno per il resto. Se gli interpreti principali, Russell Crowe (Robin) e Cate Blanchett (Lady Marian), sono originari delle ex colonie dell’Oceania (terre di deportazione dal Regno Unito), Scott è britannico, quindi almeno lui non è sospetto di motivati risentimenti verso la madrepatria. Eppure Scott si è divertito qui a smontare uno dei luoghi comuni di oltre sessant’anni di cinema hollywoodiano, per il quale ogni sbarco, ogni apertura di portellone e di balzo in avanti di marines (qui arcieri e cavalieri) è l’«arrivano i nostri». No, qui è l’«arrivano i loro».
Se ne Le crociate Ridley Scott aveva giocato la carta della ricostruzione revisionista, ma in modo prolisso, in Robin Hood è meno solenne e meno lungo: insomma non annoia. Aiuta anzi a capire che la lotta per il potere nei «secoli bui» - come vennero definiti dall’Illuminismo - era analoga a quella di oggi, ma con minor ipocrisia: tutti tradivano tutti, come adesso, ma allora c’era almeno la possibilità che il più coraggioso prevalesse, se era anche il più intelligente. L’avvento della coscrizione di massa e poi della «guerra di materiali» hanno tolto anche questa eventualità. Ma il personaggio di Robin Hood le precede...
Giunto al Festival come co-produttore di Robin Hood, oltre che di protagonista, Crowe (che sabato sarà ospite di Fabio Fazio) ha cercato di motivare l’ennesima versione del suo personaggio, tante volte portato sullo schermo, non con l’esigenza delle grosse produzioni di ridurre i rischi, ma con quella di innovare. Dunque Crowe, ora emulo di Errol Flynn (anche lui australiano), Sean Connery (scozzese) e Kevin Costner (statunitense), ha detto: «Ci sono stati molti Robin Hood cinematografici, ma nessuno soddisfaceva dal punto di vista umano». Quello di Connery (e Audrey Hepburn), per la regia di Richard Lester, soddisfaceva eccome, ma ai tempi di quel film, Robin e Marian, Crowe nasceva.
All’attore nessuno ha poi chiesto se aveva letto il romanzo di Joseph Walzer McSpadden, Le avventure di Robin Hood, che ora esce in Italia da Castelvecchi, a quasi un secolo dalla versione originale. Deve però conoscerlo lo sceneggiatore Brian Helgeland, il cui sodalizio con Crowe e con Cannes risale al 1997, quando il Festival presentò in concorso - senza premiarlo (ma questa fu colpa della giuria) uno dei rari polizieschi dell’ultimo mezzo secolo che meritino un ricordo: L.A. Confidential di Curtis Hanson, cui Crowe deve la fama mondiale.

Sempre Helgeland si cimentò nella regia di un film a sfondo medievale, Il destino di un cavaliere, che impose Heath Ledger, sebbene di memorabile avesse solo la molestia e la colonna sonora volutamente anacronistica. È sempre dagli errori che s’impara...

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