Ecco il nuovo fortino dello spaccio dei migranti dell'ex Penicillina

Decine di migranti dell'ex Penicillina occupano un nuovo edificio abbandonato nel quartiere Tiburtino. E dopo lo sgombero, nella zona, si moltiplicano baracche e accampamenti

Ecco il nuovo fortino dello spaccio dei migranti dell'ex Penicillina

C’è stato un tempo in cui Roma ha sfidato le stelle. Erano gli anni in cui la città si specchiava nel firmamento dell’innovazione accogliendo decine di aziende hi-tech. C’era il futuro alla fine di quella vecchia consolare, la via Tiburtina, che i romani dell’antichità percorrevano per raggiungere il mare. Negli anni Novanta, invece, puntava dritto al di là dell’oceano. Non a caso l’area circostante era stata ribattezzata “Tiburtina Valley” nella convinzione che non sarebbe sfigurata accanto alla cugina famosa di San Francisco.

Di tutto questo oggi rimane soltanto una costellazione di zone franche comparse dietro ai cancelli degli stabilimenti abbandonati (guarda il video). È il caso dell’ex fabbrica della Penicillina che fino alla scorsa settimana era l’emblema del declino di questo quadrante capitolino sfigurato dalla crisi economica e dall’emergenza abitativa. Ma da quando l’enorme complesso farmaceutico è stato sgomberato gli occupanti hanno trovato riparo altrove. Nelle ex officine Romanazzi di via di Tor Cervara, ad esempio, sono arrivati una decina di nigeriani. Si sono aggiunti ai disperati che pernottano al loro interno già da un paio di anni ed hanno sigillato l’ingresso con grosse catene e lucchetti. Non ci permettono di entrare perché temono che le ruspe del Viminale facciano tabula rasa anche delle nuove baracche.

Qualcun altro invece ha scelto di fermarsi qualche centinaio di metri più avanti, nel parcheggio di uno dei tanti edifici abbandonati che incorniciano via di Tor Cervara. Una decisone presa per amore, ci spiega una quarantenne romana, che ha declinato le soluzioni alloggiative del Comune di Roma per non separarsi dal suo compagno, un nigeriano di qualche anno più giovane conosciuto nei meandri dell’ex Penicillina. Ma anche per sfuggire alla violenza di un ghetto dalle regole primitive e brutali, dove spaccio e furti erano all’ordine del giorno. “Da soli stiamo meglio – ci spiega la donna – anche perché nella ex fabbrica c’erano risse di continuo”. Due cuori e una capanna, costruita in poche ore con tavole e materiali di scarto recuperati dai cassonetti. “Il tetto è un po’ basso – ironizza mentre ci accoglie all’interno della sua baracca – ma non manca nulla: abbiamo persino la stufa”. È per questo che la sera, quando il freddo è pungente, “diventiamo anche cinque o sei”. “Ma – ci dice – la maggior parte delle persone sgomberate sono rimaste unite”.

Il ghetto, ci svela, “si è solo spostato di qualche centinaio di metri”. E per ritrovare le facce scure e gli sguardi diffidenti che ci è capitato di incrociare nell’ex Penicillina bisogna proseguire lungo la stessa strada e imboccare un tunnel che passa sotto all’autostrada. È buio e silenzioso. Si sente solo il tintinnio delle gocce d’acqua che fuoriescono una ad una da una crepa che corre lungo il soffitto. In lontananza scorgiamo due fisionomie allungate che ci vengono incontro. “Cerchiamo i ragazzi mandati via dell’ex Penicillina”, gli diciamo. “Siete della polizia?”, domandano con tono sospettoso. La tensione è palpabile. Quelli che non sono annebbiati dalla droga o dall’alcol hanno paura. Paura che da un momento all’altro arrivino le forze dell’ordine.

Ci lasciano passare con la promessa di non riprendere nulla. Ed in effetti è proprio il nulla ad accoglierci quando emergiamo dal sottopassaggio e ci troviamo di fronte all’ennesimo scenario di desolazione: uno sterminato complesso di edifici diroccati circondati dall’immondizia. Probabilmente degli ex uffici che sono stati saccheggiati di tutto. In molti casi manca persino la pavimentazione. Una misura presa dalla proprietà per scongiurare il rischio di un’occupazione che, però, non è servita a fermare la disperazione dei migranti. Li vediamo entrare ed uscire dallo stabile alla spicciolata. Alcuni hanno un’aria stordita e nemmeno si accorgono di noi, altri non si lasciano avvicinare e ci cacciano con gesti e parole: “Andate a casa e mettete giù quel telefono”.

C’è chi porta con sé zaini, fornelli, lavandini e tutto l’occorrente per stabilirsi oltre quei muri sbrecciati. “Sto cercando un posto dove costruire un rifugio per passare la notte, per questo sono arrivato qua”, ci dice uno di loro. “Abbiamo perso tutto quando il governo ci ha detto di andarcene”, racconta un altro degli ex occupanti. “Qui non ci sono acqua, né bagni”, continua. Ma nonostante le condizioni precarie il business dello spaccio sembra essersi riorganizzato. Fuori dal tunnel le vedette sono già al loro posto e con un cenno invitano alcuni ragazzi italiani ad entrare per procurarsi qualche dose.

E mentre alle spalle dell’ex fabbrica di via Tiburtina ruderi e parcheggi brulicano di ombre, l’ex complesso farmaceutico imbottito di scorie e amianto continua a spaventare i residenti del quartiere. “Sapevamo che lo sgombero sarebbe stato fine a sé stesso”, commenta Carlo De Felici del comitato di quartiere Pratolungo, che invoca un intervento governativo per demolire e bonificare il sito.

Un’operazione che potrebbe costare fino a 10 milioni di euro. “Spetterebbe al proprietario mettere in sicurezza lo stabile”, ci dice. Ma visti i costi ingenti è probabile che le rovine continueranno a svettare ancora per molto tempo lungo la via consolare.

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