È ancora lungo il sentiero che conduce alla verità sulla morte di Pamela Mastropietro, la diciottenne uccisa il 30 gennaio dello scorso anno a Macerata. A più di duecento chilometri da Roma, la città dove è nata e cresciuta. Pamela non era lì per caso.
Nella comunità di recupero dalla quale si è allontanata per poi finire nelle grinfie del suo aguzzino c'era arrivata per liberarsi da una dipendenza che sarebbe stata il frutto di un amore sbagliato. Quello per un ragazzo romeno qualche anno più grande di lei, Andrei Claudiu Nitu, imputato davanti al gup del Tribunale di Roma per spaccio di droga, circonvenzione di incapace e induzione alla prostituzione. Il giovane ha presentato ieri la richiesta di rito abbreviato e, in caso di condanna, potrà beneficiare di uno sconto di un terzo della pena. Secondo la pubblica accusa sarebbe stato lui ad aver "iniziato" la ragazza all'eroina e non solo. Almeno in un'occasione, infatti, Nitu avrebbe cercato di far prostituire Pamela per ottenere la droga.
Un episodio che risalirebbe a due anni fa e che la vittima avrebbe raccontato a sua madre e alle amiche. La famiglia Mastropietro, che si è costituita parte civile nel processo a carico del giovane, non era all'oscuro di quella relazione pericolosa. Ed ha fatto di tutto per cercare di intralciarla. L'inchiesta che oggi vede coinvolto Nitu prende le mosse proprio da una denuncia fatta dalla madre di Pamela, Alessandra Verni, ad aprile del 2017. "Pamela – spiega a IlGiornale.it Marco Valerio Verni, zio della vittima e avvocato della famiglia – si era invaghita di Nitu e invece lui l'ha trascinata nel tunnel dell'eroina".
Purtroppo però il tentativo di disinnescare la minaccia, segnalando Nitu alle forze dell'ordine, non è servito. E così, qualche mese più tardi, la famiglia ha deciso di allontanare la ragazza da Roma e dalle cattive compagnie di cui si era circondata affidandola a una comunità terapeutica a doppia diagnosi, la Santa Regina di Corridonia, nel Maceratese. Anche quello che è accaduto all'interno della struttura andrebbe indagato. E non è da escludere che Nitu e Pamela abbiano continuato a sentirsi dopo l'approdo di quest'ultima in comunità. "Nel centro è vietato avere contatti con l'esterno ma – ipotizza il legale – non possiamo avere la certezza le cose siano andate veramente così".
Un dubbio, quello sull'efficacia dei controlli effettuati dalla struttura di recupero, che sarebbe suffragato anche dagli accertamenti medico legali. "Sembra che dopo l'arrivo in comunità – denuncia l'avvocato – Pamela sia comunque riuscita a fare uso di sostanze stupefacenti, come dimostrano le tracce di oppiacei riscontrate dall'anatomopatologo della Procura di Macerata". "Su questo aspetto – aggiunge – chiediamo che si vada a fondo, a tutela della comunità e degli stessi pazienti".
Nel frattempo, l'unico imputato per la morte di Pamela, il pusher nigeriano Innocent Oseghale, è stato condannato in primo grado all'ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere. Le motivazioni della sentenza, emessa a maggio scorso dalla Corte di Assise di Macerata, verranno depositate alla fine novembre. Inizieranno a decorrere da allora i termini per presentare l'appello. Una carta che la difesa di Oseghale giocherà sicuramente.
La prossima settimana, invece, il gip del capoluogo marchigiano deciderà della richiesta di archiviazione nei confronti di Lucky Desmond e Awelima Lucky, gli altri due nigeriani inizialmente coinvolti insieme ad Oseghale nelle indagini sull'omicidio della giovane.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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