Intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, il film Anastasia ebbe un successo internazionale di pubblico e di critica, con il premio Oscar per la migliore attrice a Ingrid Bergman. Raccontava la storia, non vera, ma non inverosimile, dell'unica figlia della dinastia Romanov, Anastasia, appunto, scampata al massacro di Ekaterinburg, dove la famiglia dello zar Nicola II era stata «giustiziata» con modalità più da macelleria che da esemplare condanna di nemici del popolo Il clima da guerra fredda e l'indubbia bravura degli attori (nel cast c'erano Yul Brinner, Akim Tamiroff, Sasha Pitoeff) contribuirono a quel successo, così come l'idea e l'immagine di una Russia imperiale scomparsa, ma la cui magnificenza, insieme con il suo fascino misterioso, steppe, vendette, misticismo e collane di perle, era rimasta ben presente nonostante il comunismo e i gulag che ne avevano preso il posto.
Nello stesso periodo uscì in Francia un romanzo, Ici le chemin se perds, dove si adombrava un'altra scomparsa/riapparizione zarista, quella di Alessandro I, uno degli artefici della sconfitta di Napoleone Bonaparte, nonché l'ispiratore di quella Santa Alleanza che avrebbe dato vita al congresso di Vienna e al successivo riordino dell'Europa. Alessandro era morto in circostanze misteriose nel 1825 e in sostanza il libro riprendeva la leggenda che era andata via via montando dopo i suo funerali: da scrittori illustri come Tolstoi a storici e diplomatici come Maurice Paléologue si diede credito all'idea di un imperatore che, al culmine del suo potere e della sua gloria, fuggiva dall'uno e dall'altra, in preda a una sorta di crisi mistica che lo avrebbe portato a una vita errabonda e insieme di espiazione, alla ricerca di Dio e dell'anima del popolo russo.
Pubblicato da Gallimard, il libro sprofondò però nel disinteresse generale. Trent'anni dopo, nel ripresentarlo al pubblico, una lunga nota introduttiva definirà quel disinteresse «inspiegabile», visto che sia il tema, sia il modo in cui veniva trattato «avrebbe dovuto a rigore di logica colpire allo stesso modo sia il grande pubblico assetato di esotismo e di avventura sia quello dei lettori cosiddetti esigenti che sarebbero stati certamente sedotti dagli stratagemmi di una struttura tanto ingegnosa». Nel romanzo infatti non è mai dato sapere se il protagonista sia o meno l'imperatore scomparso, tanto meno se nelle tre parti in cui la narrazione è scandita campeggi sempre la stessa persona e se si tratti comunque di una figura reale o di un una sorta di avatar che, sotto tre volti diversi, simboleggi «l'anima slava nel suo patetico errare».
In realtà, verrebbe da stupirsi del contrario, visto che quelli sono in Francia gli anni di Bonjour tristesse della Sagan e di I mandarini di Simone de Beauvoir, di Lolita di Nabokov, che esce appunto allora per un editore parigino, della letteratura impegnata e dell'intellettuale militante, in breve un humus del tutto contrario a quel misticismo russo che nel romanzo straripa da tutte le parti, nonché dalla quasi ossessiva presenza de peccato, della colpa, della necessità di purificazione, della virtù salvifica della preghiera E va da sé che la Russia che allora andava di moda oltralpe, e non solo oltralpe, era la Russia operaia e insieme industriale, lanciata verso la conquista dello spazio, appena orfana di Stalin, ma già pronta con Krusciov a inaugurare un nuovo corso dove perché nulla cambiasse si doveva far finta che nulla sarebbe rimasto come prima. Per riassumere il tutto, ciò che con Anastasia poteva funzionare per il pubblico cinematografico, trovava freddi i frequentatori colti, di sinistra va da sé, di Saint-Germain e più in genere del Quartiere latino
Adesso Adelphi riporta in superficie, e per il pubblico italiano, quel romanzo (Qui il sentiero si perde, di Peské Marty, traduzione di Daniela Petruccioli, pagg. 456, euro 24), riproponendo quella stessa nota introduttiva che campeggiava nella ristampa Phébus del 1985 e dove l'accento veniva posto sul tema dell'avventura, la Siberia come una sorta di Far East che è poi in realtà un Far West.
Si tratta però di una lettura semplicistica da un lato, ingannatrice dall'altro, perché qui non c'è nessuno spirito di frontiera e nessun cowboy più o meno in salsa tartara, ma quell'insieme di folklore, religione e dolore che è proprio della grande letteratura dell'Ottocento russo e che poi nel Novecento troverà in Il Maestro e Margherita di Bulgakov il suo punto finale, il Diavolo al Cremlino, l'anima russa che brucia sull'altare del razionalismo ateo.
Se si guarda del resto all'autore del romanzo, Peské Marty, già il nome si rivela una matrioska: Antoinette Peské era una scrittrice di origine mongola da parte di madre, suo marito, Pierre Marty, era una giurista nonché un orientalista: la terza parte del libro, con i continui riferimenti al misticismo tibetano e alle idee esposte da René Guenon ne Il re del mondo è molto probabilmente opera sua.
Qui il sentiero si perde è per certi versi la rappresentazione «dell'anima di una terra dopo secoli di avventure in comune, un modo di essere, la linea dell'orizzonte, il colore degli occhi e del cielo, i lineamenti, l'ospitalità, le usanze particolari; una moltitudine di segni segreti che rivelano negli uomini di una certa terra la fraternità, privati della quale non gli è dato vivere». Per quanto attratto dall'Oriente, il suo misterioso protagonista è un russo che resta tale, consapevole che dietro l'esotica bellezza del primo, «tra le loro rovine prestigiose», ciò che si avverte è «l'aspro sentore di un'umanità in decomposizione». Il suo essere russo non vuol dire però essere occidentale, perché è il razionalismo a separarlo dall'Occidente: «Abbiamo visto, in Francia, i cosiddetti belli spiriti, i filosofi, tutti i saltimbanchi e i folli della ragione ragionante».
Se l'anima russa è ancora viva, dice sempre il misterioso protagonista, è perché ha fino ad allora resistito al contagio del razionalismo e del materialismo e il suo vagabondare significa proprio questo: Ero fuggito prendendo la via dell'esilio e dell'avventura. Dove stavo andando allora, lo ignoravo. Adesso lo sapevo. Tutta la miseria della mia vita, durata lunghi anni, si risolveva in questo momento abbacinante. Tutti gli insegnamenti tratti dalle mie sofferenze a poco a poco convergevano in questo pensiero trionfante: risalivo alla sorgente, alla sorgente dell'anima russa!».
Come si sarà capito, in Qui il sentiero si perde l'avventura è un qualcosa di secondario e nel suo misterioso protagonista non c'è niente dell'avventuriero e molto, forse troppo, del monaco e insieme del discepolo, con la sua straordinaria capacità
di soffrire che in alcuni casi diviene una specie di masochistica voluttà, redenta soltanto da una consapevolezza cristologica, di lenimento dei mali del mondo. E' una meditazione religiosa e insieme un romanzo filosofico.
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