Fra le rovine di Angkor Viaggio di un milanese alla scoperta dell’Oriente

Negli scatti del fotografo Giuseppe Ripa, il cuore «di pietra» di una grande civiltà scomparsa

Della civiltà Khmer che conobbe il suo apice nell'attuale Cambogia, fra il IX e il XIII secolo, rimangono i templi e le rovine di Angkor come una straordinaria testimonianza archeologica. Fu il naturalista francese Henri Mouhot il suo scopritore, nel 1858, e dopo di lui viaggiatori ed esploratori di origini e tempi diversi hanno eletto Angkor come tappa fondamentale della propria vicenda, tanto che Tiziano Terzani disse: «Ci sono alcuni posti al mondo in cui uno si sente orgoglioso di essere membro della razza umana. Uno di questi è certo Angkor».
Lungo questa scia intellettuale di esplorazione che diviene auto-esplorazione, scoperta di sé attraverso il viaggio, si inserisce il fotografo milanese Giuseppe Ripa, il cui percorso artistico parte dallo Yemen, ma si snoda soprattutto in Oriente, con viaggi e reportage in Laos e Tibet per approdare appunto alla Cambogia. Secondo Ripa, Angkor è soprattutto «una metafora del tempo, rappresenta il confronto con il passato in un contesto unico, diverso». Un luogo particolare che le immagini di Ripa pubblicate ora in Memorie di pietra (Charta, pagg. 102, euro 39.95) ritraggono con efficacia: si vedono edifici di culto invasi dalle radici di Ficus religiosa (sotto un albero di questo genere il Buddha storico ottenne l’illuminazione) in un tentativo, non si sa quanto inconsapevole, da parte della foresta di inghiottire i resti di una civiltà che fu assai potente e di cui ora non rimangono che pietre. E quindi è la volta delle aggraziatissime figure divine delle devata, e delle danzatrici celesti apsaras, del viso di Lokeshwara, il bodhisattva della compassione. Sopra ognuna di queste innumerevoli rappresentazioni induiste e buddiste corre il vento del tempo, e qui sgretola un fregio, lì decapita un dio, o storpia una figura che lo scultore aveva immaginato aggraziata. Tornano in mente «l'alterna onnipotenza delle umane sorti» del Foscolo, la fascinazione romantica per le rovine, l'attrazione per le vestigia di un passato mitizzato.
«Ma ciò che come fotografo ho cercato di sviluppare è un tema più profondo ed emozionante», spiega Ripa. «E cioè la lettura delle rovine come senso del tempo puro, irriducibile alla storia perché espressione dell'assenza e quindi puro desiderio, secondo la lezione di Marc Augé». E non è solo la lotta fra pietre e radici nella cornice di un tempo in eterno flusso verso la disgregazione e la ricomposizione in forme inedite e sorprendenti che Giuseppe Ripa racconta attraverso i suoi scatti.

Ci sono anche gli esseri umani: la venditrice ambulante seduta nel vano di una finestra, quel sorriso enigmatico che si trova in Asia, negli uomini, nelle donne, sul viso dei monaci che camminano lievemente sui lastroni di pietra ancora intatti, che osservano assorti ed equanimi le rovine o le torri magnificenti, le splendide decorazioni superstiti o gli ingressi dei templi ostruiti dal crollo del tetto, dallo spezzarsi delle colonne, dal frantumarsi delle statue. La figura umana come elemento ulteriore di fusione che riassume e trascende la compenetrazione fra ambiente e architettura, fra pietra e foresta. Ecco l’uomo - quel sorriso - che le attraversa entrambe.

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