"Tra le rovine le urla strazianti" Paura per italiani all’hotel Montana

"Tra le rovine le urla strazianti" 
Paura per italiani all’hotel Montana

«Qu...i si... è spento t...utto». Quelle cinque parole sputate dall’inferno, ricomparse, spezzettate, smozzicate, rallentate sullo schermo di Skype sono il primo, balbettante messaggio di Fiammetta, la sopravvissuta. Quelli di Avsi, l’organizzazione umanitaria presente ad Haiti da 11 anni, la cercano dall’alba. Per molte ore di Fiammetta Cappellini, 36 anni, responsabile dell’ufficio di Port-au-Prince e dei suoi due compagni italiani non si sa nulla. Non si sa se siano vivi o morti, sepolti o in fuga. Agli altri nostri connazionali non va meglio. Dovrebbero essere 190 o 192, ma per molti la sorte resta oscura, confusa. La furia di un terremoto capace di cancellare tralicci e parabole li trascina in un limbo impenetrabile, oscuro. Almeno uno secondo Fabrizio Romano, responsabile dell’Unità di Crisi della Farnesina, potrebbe esser morto. Gli unici a venir dati sicuramente per sopravvissuti sono una settantina di connazionali contattati direttamente dalla Farnesina o dai nostri diplomatici. Per gli altri nulla è certo. La paura è forte: l’hotel Montana, dove vivevano molti italiani, è stato devastato dal sisma. «Ci sono grosse difficoltà nelle comunicazioni e nella raccolta d’informazioni, non è detto che tutti e 190 si trovassero fisicamente ad Haiti - chiarisce Romano - dodici tecnici di una ditta romana in un cantiere a nord di Haiti, alcuni religiosi e il console onorario Giovanni de Matteis sono stati contattati e sono incolumi». Mentre la Farnesina tratteggia questo quadro incerto qualcosa sui computer dell’Avsi si muove. Quelle cinque parole luccicanti affiorate da una linea malata sono il primo segnale di vita. Come per miracolo Skype prende fiato, Fiammetta acquista la parola, racconta la sua drammatica esperienza di sopravvissuta ad un sisma che s’è divorato tutto quel che la circondava.

«La prima scossa, quella delle 17, è stata interminabile. È durata più di minuto ma non ha distrutto l’ufficio. Questo ci ha salvati, ma anche ingannati. Per un po’ non ci siamo resi conto del disastro. Io, Jean Philippe e un altro collega haitiano l’abbiamo capito quando abbiamo cercato di raggiungere casa. Siamo rimasti bloccati per ore, prigionieri di un ingorgo di gente terrorizzata, gente in fuga, gente senza più nulla». La situazione più terribile li attende nel cuore della capitale smembrata. «A Port-au-Prince - racconta Fiammetta - il panorama è devastante. Gli edifici più importanti sono scomparsi. Il commissariato di Delmas 33, un edificio di tre piani con annessa prigione e centro di detenzione di minori non esiste più. Quelli dell’Onu hanno montato le fotocellule per continuare i soccorsi di notte. Ce ne sarebbe bisogno ovunque, ma sono solo lì. All’hotel Montana, semidistrutto ci sono 200 dispersi. Non esiste una sola zona dove le strade non siano invase dai ruderi. I morti sono migliaia. Dalle rovine arrivano le implorazioni di chi è ancora sotto. Ascoltarle, vedere i parenti impotenti, sapere di non poter far nulla è terribile. Soprattutto per chi come noi è abituato ad aiutare e soccorrere. In quell’inferno troviamo quattro fratellini usciti vivi da una casa distrutta. I loro genitori non ci sono. Forse sono per strada, forse sono morti altrove. Li soccorriamo. Uno è grave ferito alla testa, piange disperato. La sorellina urla: «Come farà mamma a ritrovarci se casa nostra non c’è più?». Li lasciamo, oltrepassiamo interi isolati ridotti a sottilette di cemento affastellate. Dove c’era un famoso supermercato non troviamo più nulla. La scossa l’ha colpito all’ora di punta e là sotto dev’esser un macello». In questa situazione come ripetono dalla Farnesina la sorte di molti connazionali resta appesa ad un filo. Fiammetta lì ad Haiti lo sa bene. Quando la scossa la sorprende non sa nulla di suo marito, un avvocato haitiano. Si sono salutati alla mattina e ora i loro telefoni sono muti, silenziosi, inutili. Si cercano per ore, mentre l’ansia attanaglia lo stomaco, spinge il cuore nella gola. «Il viaggio verso casa distante meno di dieci chilometri dura più di due ore. È un’odissea tra una folla senza speranza, tra fantasmi ridotti alla follia dalla paura e dall’orrore.

Vagano senza meta, si trascinano dietro familiari feriti e insanguinati. Mentre attraverso quella distesa di macerie mi dico «forse è anche lui lì sotto, forse non ce l’ha fatta. Invece lo trovo. La nostra casa è ancora in piedi. Quella accanto è un cumulo di polvere e mattoni».

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