Sì a scuola e bottega ma senza promuovere asini

Napoli, piazza S. Maria la Nova, a pochi metri dal Provveditorato agli Studi. Un uomo sulla cinquantina esercita da tempo il mestiere di posteggiatore abusivo. Lo ha sempre fatto da solo, ma questa volta è in compagnia. Un cliente abituale, notando l'insolita presenza, gli domanda: «Don Carmine, vi siete fatto l'aiutante...?», e il posteggiatore, allargando le braccia: «Dottó, che vi devo dire? Questo è mio figlio. L'ho mandato un anno dal meccanico, e non mi è riuscito bene; l'ho mandato un anno dal salumiere e s'è fatto cacciare. Mò lo tenco con me. Se neanche con me va bene, mi rassegno e lo mando a scuola».
Questa che potrebbe sembrare una scenetta inventata, una scenetta alla De Crescenzo, è invece una scenetta vera, riportata anni fa dal Mattino, che ne diede un certo risalto, per dimostrare come stavano le cose a Napoli in materia di evasione scolastica e di lavoro nero.
Ora apprendo che ci sarà la possibilità di assolvere l'ultimo anno di obbligo scolastico anche in percorsi di apprendistato; il che - tradotto in parole povere - significa che si potrà cominciare a lavorare anche in età scolare (15 anni), non contravvenendo alla legge, che in qual certo senso equiparerà il lavoro alla frequenza scolastica.
Non so come si sia giunti a questa decisione. Gli studenti (e con loro i genitori) hanno sempre lamentato l'inadeguata formazione al lavoro da parte della scuola. In pratica, l'hanno accusata di insegnare un sacco di cose belle ma inutili, tali da rendere i diplomati incapaci di mettere un chiodo alla parete, di segare un pezzo di legno, di fare - insomma - qualsiasi cosa di pratico e di utile, quello che poi serve nella vita. Già molti anni fa, lo scrittore Giovanni Mosca sollevò la questione. Nei suoi bellissimi Ricordi di scuola, parlando dei problemi di aritmetica che si danno ai bambini, ironizzò su «quegli strani clienti che per allenare i ragazzi all'uso dei numeri decimali entravano nella bottega e chiedevano con naturalezza, senza che il paziente mercante trovasse men che normale la richiesta, metri 0,001 di stoffa, cioè un millimetro, per farci che cosa? nemmeno un taschino per nani, nemmeno una gonna per formiche, nulla (...) e quel signor Lorenzo che aveva una cupola di metri quattordici di diametro e voleva ricoprirla di rame? Questi signor Lorenzo (...) non sono di questo mondo» come non sono di questo mondo tante cose che insegna la scuola.
Capisco dunque l'ansia del governo di fare dello studente (che potremmo chiamare uomo-teoria) un homo faber, e tale scelta mi starebbe anche bene se non andasse a peggiorare una situazione di per sé già grave, anzi gravissima: la preparazione degli studenti. Noi tutti sappiamo quanto asini siano gli scolari italiani (specie nelle materie scientifiche) ma poi lo sappiamo fino a un certo punto, fino al punto da non credere - ad esempio - ad una indagine condotta nel 2001 dal Cede, indagine condotta su un campione di 650 ragazzi diciottenni. Tale indagine («Rivelazione sulle competenze alfabetiche della popolazione a 18 anni») rivela che il 25% dei giovani di quell'età è semianalfabeta, e trova qualche difficoltà perfino a leggere gli auguri di mamma e papà scritti sulla torta di compleanno.
Se Pico della Mirandola (di cui si dice che sapesse recitare al contrario molti poemi, tra cui la Divina Commedia) avesse studiato un anno in meno a scuola, la società non se ne sarebbe accorta. Ma i nostri studenti non sono Pico della Mirandola, e ho paura che molti di loro non sappiano neppure chi sia stato Pico della Mirandola; allontanarli dalla scuola varrebbe a legalizzare l'evasione (una vera piaga in Italia, specie al Sud) ed allungar loro le (già lunghe) orecchie d'asino.
E allora, che fare? La soluzione fu indicata già negli anni Venti dal pedagogista svizzero Adolphe Ferrière, il promotore della cosiddetta «scuola attiva». Nella scuola da lui teorizzata (e realizzata) il lavoro manuale era al centro della formazione dello studente, la scuola stessa era considerata un «laboratorio di pedagogia pratica»: «I nostri scolari nulla imparano dalla vita - disse - perché i loro maestri non insegnano per la vita».

Queste erano le sue indicazioni, le sue e quelle del pedagogista inglese Cecil Reddie, secondo cui «La scuola non deve essere un ambiente artificiale, nel quale non si è a contatto con la vita se non mediante libri; essa deve essere un piccolo mondo reale, pratico (...) affinché, entrando nella vita, il giovane non entri in un mondo nuovo, a cui non è stato preparato e in cui è come disorientato».
Queste cose furono dette e scritte cento anni fa: che aspettiamo ad applicarle?

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