«Lasciate ogni sembianza voi ch'entrate»: parafrasando il poeta, si può definire così l'approccio a una cena al buio. Non sarà l'inferno, ma per quanto controllato, certo è un tuffo nell'oscurità. E qualche timore lo suscita, insieme con la curiosità di scoprire com'è la vita da non vedenti. Fondato. Perché arrivi lì, all'Istituto dei ciechi di Milano, ma non puoi avventurarti nel cubo nero se prima non prendi una serie di precauzioni. Via la giacca, le chiavi, l'orologio, tutto quanto può luccicare o costituire un pericolo al buio, occhiali compresi, gli inseparabili compagni di viaggio, degradati d'un colpo al rango di inutile orpello, messi a nudo nella loro fragilità e paragonati persino a un corpo contundente. Dunque, un forte senso di privazione ti assale già prima di varcare la soglia marcata da una successione di tende nere, oltre le quali tutto è di un nero più nero.
Si entra a gruppi di sei, disposti in fila indiana, ciascuno con le mani sulle spalle di chi gli sta davanti. A tirare il trenino e a metterlo sui binari giusti provvede Matteo, il cameriere non vedente che è stato assegnato al nostro gruppo e ci accudirà - è proprio il caso di dirlo - per l'intera serata. Affabile, gentile e con una buona presenza di spirito. Al primo di noi a cui scappa un banale «non ci vedo», risponde pronto «a chi lo dice». Scontata la rosata liberatoria di fronte all'ignoto, il modo migliore di esorcizzare la paura. Ma prima di tutto bisogna arrivare al tavolo giusto, trovare la propria sedia e farsi un'idea di chi e cosa si ha intorno. Al venir meno della vista pone in qualche modo rimedio l'udito, certificando la vicinanza di persone care e la presenza di altre ignote, che l'invisibilità fa venire ancora più voglia di conoscere. Ma nel vuoto in cui si perde lo sguardo, salvifico si rivela soprattutto il tatto. O per meglio dire, il contatto: con le posate, il tovagliolo, i bicchieri e la bottiglia d'acqua (una per ciascun commensale, onde ridurre il traffico di mani, braccia e gomiti). Si ritrova così, rovesciando il detto che sia meglio guardare e non toccare, la percezione delle forme, dei volumi e delle distanze.
Sempre a rischio d'inciampo, però. Come ci fa sapere a un certo punto l'inavvertito rovesciamento, sul nostro tavolo, della bottiglia del vino. Senza conseguenze anche perché - come da istruzioni - le era stato rimesso il tappo. Capito il messaggio? Ponderare, centellinare e rallentare ogni movimento. Toccare sì, ma piano. In tal modo si incontreranno le mani di Matteo con le nostre, facilitando il passaggio delle varie portate. Sufflè di patate, crespelle ai funghi, sfilacci di manzo e strudel di mele: piatti di cui si percepisce ancor più il sapore, nel momento in cui li riconosciamo solo all'assaggio. Quando si sente ma non si vede niente, più pregnanti diventano anche le parole.
Sicché sfrutteremo appieno l'occasione che ci è stata data da Citroën Italia di apprezzare il valore di un'approfondita indagine sull'evoluzione del rapporto tra domanda e offerta in tempo di crisi, realizzata da Remo Lucchi di Gfk Eurisko. Nel buio, una voce forte e chiara, prima di uscire a riveder le stelle.
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