Come salvare i critici letterari dal suicidio

Le pagine estive dei giornali ci hanno deliziato con le burbere dichiarazioni di alcuni vecchietti sullo stato della letteratura in Italia. È finita con Volponi, dice uno. No, con Calvino, ribatte un altro. No, con Gadda, dice un terzo. E bisogna lasciarli dire, sia perché è estate, tempo di liquidazioni (della serie: facciamogli una bella intervista così non ci pensiamo più), sia perché un problema c’è.
Ma a trattenerlo al di qua della barriera del buonsenso non sono quegli illustri laureati, bensì un nostro eccellente italianista, Mario Lavagetto, che dedica un bel libro - Eutanasia della critica (Einaudi) - all’eclissi, fin troppo ben documentabile, della funzione della critica letteraria nei nostri anni. Lavagetto insiste - in questo che potremmo definire, più che un pamphlet, un repertorio narrato degli ultimi decenni di (dis)avventure della critica - sulle cause interne di quell’eclissi: di qui la convinzione che la sua fine sia l’esito, quasi pietoso, decretato vuoi dal mercato vuoi dalla cultura massmediatica, di pregressi, reiterati tentativi di suicidio. Primo fra i quali, racconta Lavagetto, fu il sogno della critica di farsi scienza. La semiotica e lo strutturalismo da un lato, il marxismo («scienza della storia», come lo definì Althusser) dall’altro alimentarono, in anni che a molti sembrano appartenere alla preistoria, questa illusione, foriera di iperspecialismi che portarono la critica a smarrire il rapporto vitale con il pubblico. Viene da chiedersi, però, se a quelle cause interne non se ne possano aggiungere anche altre, delle quali è forse penoso e poco onorevole parlare: cause che ci porterebbero a preferire, al benevolo «eutanasia», un più vigoroso «assassinio». Ci si domanda in altre parole se sia stata l’iperspecializzazione a uccidere la critica o se non sia vero il contrario: che cioè la riduzione - fino all’annullamento - della funzione della critica ne abbia determinato il rintanamento nell’accademismo.
Questo problema riguarda l’intera letteratura, senza distinzioni tra scrittori e critici (distinzione peraltro incomprensibile in un Novecento popolato di nomi quali Longhi, Contini, Croce). L’impressione è che sia venuta meno la capacità, da parte di critici e scrittori, di leggere la storia secondo quei caratteri di libertà e spregiudicatezza che costituiscono il nervo centrale di ogni autocoscienza letteraria. Le discussioni tra scrittori e scrittori, tra scrittori e critici, tra critici e critici si sono chiuse intorno a questioni di modelli letterari - dal minimalismo al pulp alle ultime tendenze - o a rispolverate ideologie, senza accorgersi che gli spazi di libertà della letteratura non sono mai conquistati una volta per tutte, ma si realizzano attraverso una effettiva capacità di apertura di orizzonti conoscitivi (in questo senso, che tristezza tutto questo imprigionamento del valore della letteratura a mera produttrice di emozioni!). Un esempio emblematico fino al ridicolo: il mito di Pasolini. Tutti a piangere l’assenza del grande intellettuale, tutti a parlare di Pasolini e nessuno che faccia come lui: anche perché fare come lui (magari anche contro di lui) espone, anche oggi, a rischi che la letteratura non sembra molto desiderosa di correre.
Tutto questo ha un effetto, che è l’invadenza del mercato, della mera economia (che non è l’economia, ma solo un suo cascame, perché la vera economia è coltissima) su ogni altro contenuto culturale. Tutto ciò che sta in mezzo tende ad essere eliminato. La critica letteraria non si sottrae a questo destino. La sua funzione insostituibile è sempre stata quella di offrire al lettore una mediazione tra la sua curiosità e il mercato, e quindi di educare e far crescere quella curiosità. Un buon critico, si sa, prima di indirizzare (parola ambigua) il gusto dei lettori, è colui che sa comunicare loro il proprio gusto, i propri amori.
Quando in metropolitana vediamo i lungopercorrenti armati di libro, e poi scopriamo che questo libro è sempre Il codice da Vinci o Io non ho paura (libri bellissimi, ma perché sempre quelli?) se non l’ultimo libro di Vespa, svanisce tutto il piacere di constatare che i lettori esistono ancora. La ragione per cui il libro di Lavagetto si segnala alla nostra attenzione sta nell’amore che lo sospinge pagina dopo pagina. In questa passione di comunicazione di gusti e preferenze, in questi suggerimenti di possibili percorsi, sta la possibile riscossa della critica. Solo così, paragonando la propria curiosità e il proprio amore con una curiosità e un amore più adulti, si può crescere. Se mille teorie, nell’arco di oltre quarant’anni, hanno eliminato dalla critica la figura dell’autore (ossia dell’auctor, di colui che fa crescere), alla fine il sospetto - che Lavagetto alimenta senza metterlo a tema - è che, fatta fuori l’auctoritas, la critica abbia cominciato a eliminare se stessa. Serve urgentemente un’antropologia critica. Uomini capaci di assumersi il rischio del giudizio, se necessario contro tutto e tutti. Il declino della quota di mercato dell’Italia e dell’Europa è segnato, lo dicono i grandi numeri.

Quello che non può declinare, a meno che non c’impegniamo perversamente, è il giudizio.

Mario Lavagetto sarà presente al Festivaletteratura di Mantova domani alla Casa del Mantegna, alle 18. Discuterà con Goffredo Fofi e Marcello Fois sulle «regole» della critica letteraria.

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