L'alpinista-carabiniere Walter Nones e la guida alpina Simon Kehrer, gli amici di Karl Unterkircher, scomparso ormai da oltre una settimana sul Nanga Parbat, sono a Gilgit, nella Valle di Hunza, in Pakistan, quando li raggiungiamo telefonicamente. Oggi (ieri per chi legge, ndr), per loro è stato il giorno del ritorno alla civiltà, ai contatti con gli uomini e con le cose degli uomini. Fino a 5.600 metri sono scesi con gli sci, poi, poco sopra il campo base, è arrivato l'elicottero. E al campo base, finalmente, l'abbraccio e il calore umano degli amici, gli alpinisti giunti dall'Italia, Silvio «Gnaro» Mondinelli e Maurizio Gallo. La loro avventura è diventata un caso, non solo italiano, che ha tenuto col fiato sospeso milioni di persone. «Come andrà a finire?», si chiedevano tutti. Anche perché non era così scontato che le cose andassero lisce. C'era ancora da rischiare grosso prima della salvezza. Crepacci, scariche di ghiaccio dai seracchi, valanghe. Così, a riprova che quando l'essere umano vive l'avventura più estrema, quella che del cimento con la morte, i protagonisti e coloro che osservano si uniscono in una sorta di vicenda collettiva, Simon e Walter sono diventati, loro malgrado, gli alpinisti di cui si è più parlato negli ultimi anni, anche lontano dai circoli alpinistici.
«Non ne potevamo più - dice Walter Nones - e finalmente siamo fuori dalla montagna. Dobbiamo ringraziare anche chi, dall'Italia, ci ha fatto sentire che non eravamo abbandonati. Fin dal primo rumore di elicotteri abbiamo pensato che fossero arrivati per recuperare il corpo di Karl, ma non era così. Questo però è bastato per farci capire che qualcuno ci seguiva, prestava attenzione a quel che stavamo facendo. Purtroppo, dopo aver comunicato la scomparsa di Karl, il nostro telefono non funzionava più».
Quindi è stato provvidenziale il lancio dall'elicottero?
«Sì, perché dall'elicottero abbiamo ricevuto un sacco che conteneva bombolette per il gas e un telefono satellitare. La cosa più importante per noi era il telefono. L'abbiamo preso e appena è stato possibile abbiamo chiamato per dire che eravamo ancora vivi».
Cosa è successo a Unterkircher?
«Era davanti a battere traccia. Sprofondava fin sopra le ginocchia nella neve fresca. All'improvviso è scomparso dalla vista. Abbiamo fatto più in fretta possibile per raggiungerlo. Ho messo in sicurezza Simon e l'ho calato. C'era molta neve nel crepaccio».
E Karl, l'avete trovato?
«Sì, a un certo punto, una quindicina di metri più in basso, Simon ha trovato qualcosa. Ha scavato con le mani e ha trovato Karl. Era già morto».
Come è successo?
«Probabilmente i colpi che ha preso nella caduta. Deve avere picchiato sulle pareti del crepaccio, perché non era passato molto dalla caduta».
Quindi non siete stati colpiti da una scarica di ghiaccio proveniente da un seracco superiore?
«No. Si è trattato di un ponte di neve che ha ceduto. Era neve inconsistente».
Poi?
«Eravamo a quota 6.400 metri quando è successo. A quel punto ci siamo resi conto che se fossimo scesi in quel colabrodo di crepacci, con tutte le scariche che si presentavano sotto il grande seracco, sarebbe stato più rischioso che salire. Invece se avessimo raggiunto il pianoro avremmo potuto scendere poi dall'altra parte. Così è stato fino a quota 7.200».
E oggi?
«Quando siamo arrivati al campo base eravamo ancora determinati ad andare a recuperare Karl. Poi però ci siamo resi conto che non era possibile. Karl non c'è più. Era una grande amico e un grande alpinista. È terribile vedere un amico che se ne va davanti ai tuoi occhi. Eppure questa montagna è bellissima. Una delle più belle che abbia mai visto».
Un’ultima domanda ad Agostino Da Polenza, coordinatore dei soccorsi: quanto è stato determinante l'aiuto della sua organizzazione?
«In verità credo che non sia stato determinante. Abbiamo fornito loro due bombolette di gas e un telefono satellitare. Forse un po' di aiuto psicologico. Ma volevamo essere pronti, essere lì, fare tutto il possibile senza illuderci di poter fare chissà cosa».
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