Sambuca, mistrà, amaro: è il bicchierino della staffa

Con Micaela Pallini della storica azienda romana un viaggio nelle abitudini nelle mode e nei segreti del bere a fine pasto

Chiara Cirillo

È il bicchierino della staffa, quel sorso con cui terminiamo il pasto, in particolare quello serale. Amaro, sambuca, limoncello, ognuno ha il suo preferito. E Roma ha molto da dire a proposito di liquori. Soprattutto la famiglia Pallini, che produce liquori e sciroppi fin dal 1875 e che è giunta ormai alla sua quinta generazione: rappresentata da Micaela, giovane vicepresidente che ci guida alla scoperta del bicchierino di fine cena. «Che cosa c’è nel bicchierino - esordisce Micaela, che è anche chimica - cambia a seconda del sesso: le donne bevono meno, ma più dolce. Più limoncello che grappa, preferita dagli uomini. Mentre l’amaro già da qualche anno ha perso terreno nelle preferenze di entrambi».
Bere dopo cena presenta meno problemi di abbinamento rispetto al matrimonio tra cibo e vino?
«Sicuramente d’estate con il dessert, così come con il sorbetto al limone, il limoncello è ineguagliabile. Nella stagione fredda, invece, per il dopocena un rum liscio o un armagnac con del cioccolato fondente sono un connubio sublime».
Ma anche nel bicchierino ci sono le mode?
«Oggi non ci badiamo, ma il bicchierino dopopasto è importante perché è l’ultimo sapore che rimane in bocca. Nei ristoranti come a casa troppo spesso ci si concentra esclusivamente sulla cena, non badando affatto al liquore. Niente di più sbagliato: bere quel bicchierino è il momento conclusivo della cena e se il sapore della grappa è bruciato o il limoncello è amaro, si corre il rischio di lasciare un cattivo ricordo (e sapore) della serata».
Ma si può ipotizzare una carta del dopocena simile a quella dei vini?
«In Italia non abbiamo la cultura del liquore, a parte la grappa che è stata la prima a uscire dai confini regionali. Eppure la nostra sambuca o i nostri amari sono molto apprezzati all’estero. Basti pensare che il 30 per cento della produzione della nostra sambuca romana va negli Stati Uniti, ma è ancora poco conosciuta qui in Italia».
E a Roma e dintorni, quali abitudini ci sono?
«Nel Lazio, la tradizione dell’anice è molto forte, ed è molto diffuso il consumo di liquori a base di questo frutto. Contestualmente è molto ampio il mercato del rum, che si abbina con il cioccolato, oltre ovviamente al più leggero limoncello. Poi c’è il mondo degli amari “home made” come l’amaro ciociaro, una delle più tipiche ricette popolari, che da secoli si tramanda da generazioni e che si ottiene con l’infusione di erbe della zona. Nel complesso, al primo posto mistrà e sambuca, rigorosamente con il chicco di caffè affogato (la cosiddetta mosca), seguite dagli amari del nord del Lazio, soprattutto della zona del viterbese, come il nocino, preparato per infusione con le nocciole di cui la zona è ricchissima. A sud di Roma invece, c’è l’uso di utilizzare frutta e spezie, come finocchio, basilico, e tutti gli agrumi, influenza proveniente dalla vicina Campania».
Ma come sono cambiati i gusti negli ultimi anni?
«Il cognac negli ultimi venti anni ha subito una caduta verticale, nell’angolo bar delle nostre case non ci sono più i liquori di un tempo. Distillati di frutta e di erbe aromatiche made in Italy hanno sostituito whisky e cognac provenienti da Regno Unito e Francia, che sono passati di moda. Questo è avvenuto anche perché preferendo bere meno, scegliamo una chicca, principalmente per digerire, che è una tradizione tutta italiana».
E poi c’è chi per bere forte sceglie di correggere il caffè...
«Il caffè corretto nasce in un periodo storico molto difficile per l’Italia. Nel dopoguerra il Paese era molto povero e il caffè che prendevamo dall’Africa era molto più aspro delle miscele brasiliane, più buone ma costose. Per questo, la necessità di addolcirlo con la correzione. Qui da noi l’anice fu il primo e il migliore correttore del caffè.

Si usava macchiare il caffè con il mistrà anche la mattina presto, quando ci si alzava, per scaldarsi. Ma il vero boom è stato negli anni Settanta, vera epoca d’oro del mistrà. Che aspetta di tuffarsi di nuovo nel bicchierino dei romani, giovani e no».

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