Come distinguere i meriti di uno sceneggiatore quando lavora in coppia con un altro? Morto ieri novantenne, Furio Scarpelli aveva firmato con Age (Agenore Incrocci, morto nel 2005) il meglio della loro produzione, all’origine di film italiani ora di grande, ora di piccolo successo, ma quasi sempre briosi e spiritosi, poiché un film è molto più ciò che qualcuno di poco noto scrive, che ciò che qualcun altro di molto noto recita...
Il curriculum dello Scarpelli con Age include Totò cerca casa di Steno-Monicelli; Totò sceicco di Mattoli;, La banda degli onesti di Mastrocinque; Nata di marzo di Pietrangeli; Tutti a casa di Comencini; I soliti ignoti, La grande guerra, Risate di gioia, I compagni e L’armata Brancaleone di Monicelli; La marcia su Roma, I mostri, Il tigre e In nome del popolo italiano di Dino Risi; C'eravamo tanto amati e La terrazza di Scola; Il buono, il brutto e il cattivo di Leone.
Dal 1985 la coppia Age & Scarpelli s’era sciolta e la qualità dei film che quest’ultimo firma non è paragonabile alla precedente. Per un quarto di secolo Scarpelli continuò a lavorare, ma il posto che nella storia del cinema l’aveva occupato in precedenza.
Vicino al Pci - quando già quel partito, che aveva fatto un bel po’ di storia italiana, aveva cambiato nome almeno due volte - Scarpelli avrebbe partecipato nel 1997 alla scrittura anche di Porzûs di Renzo Martinelli. Gli toccò l’incarico del parafulmine presso la critica di sinistra per un film da essa considerato ipso facto a destra. Scarpelli non trovò di meglio che assolvere - nella ricostruzione della strage rossa del 1945 di partigiani del Partito d’azione - il Pci inventando un partigiano mai esistito, un comunista proto-diessino, quindi «buono», contrario alla strage, opera invece di un comunista proto-rifondatore!
A Scarpelli era andata meglio, coi proprio errori, con un altro regista, Dino Risi. Era il 1971, l’epoca dei pretori d’assalto e il soggetto di In nome del popolo italiano proponeva un industriale inquinatore, cialtrone e destrorso, contro un magistrato onesto, preciso e sinistrorso. Scritta per risolversi in una filippica giustizialista, quella sceneggiatura fu abilmente modificata da Risi, fino a mostrare che, nel suo essere ideologizzato, il magistrato-giustiziere era peggiore del rivale.
Un altro episodio relativo a una sceneggiatura firmata (anche) da Scarpelli è quello di Tutti a casa. Era il 1960 e dalle elezioni del 1958 la Dc non poteva più formare maggioranze a destra, quindi doveva formarne a sinistra. Aveva perciò riorientato il cinema in questo senso, perché precorresse i tempi. Incombeva anche il centenario dell’unità nazionale, si dovevano fare film patriottici, ma in modo diverso da come li avevano fatti fino a poco prima Francesco De Robertis e Duilio Coletti.
La patria non era più incarnata dal militare, ma dal partigiano. Morale: in Tutti a casa Alberto Sordi impersona un tenente del Regio Esercito sorpreso dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Mentre comanda una marcia del suo plotone, viene preso di mira da un reparto tedesco. Entra in un bar e telefona: «Signor colonnello, i tedeschi si sono alleati agli americani e ci sparano addosso!». Geniale, ma il finale doveva essere edificante. Così il tenente Sordi rifiuta di arruolarsi nell’Esercito repubblicano, come gli suggerisce il padre Eduardo De Filippo, e - dopo essere scappato per settimane per non battersi più - torna a battersi nelle cosiddette quattro giornate di Napoli.
E non si incolpi Sordi, che dei suoi film non era solo il protagonista. Lui voleva che Tutti a casa finisse con un soldato americano che gettava un pacchetto di sigarette in faccia al tenente sbandato. Se Sordi avesse prevalso, il più celebre film italiano sarebbe Tutti a casa, non La dolce vita. Poiché nel cinema non si butta via niente, quel finale venne adottato da un film di poco successivo, Il federale di Luciano Salce, con Ugo Tognazzi, scritto da un’altra celebre coppia di ben altro orientamento, Castellano & Pipolo.
Scarpelli avrebbe poi capito che il Pci andava verso la decomposizione. Lo si coglie in C’eravamo tanto amati, dove Stefano Satta Flores, l’intellettuale comunista, dice: «Credevamo di cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi». E non solo loro.
A comunismo vivo e proprio per fronteggiarlo, il capitalismo doveva apparire migliore di quel che era; a comunismo morto, il capitalismo s’è mostrato com’era. E abbiamo avuto la crisi del 2008, che, se diverrà un film, sarà un film senza lieto fine.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.