Un grappolo di strana bambagia. Nera, inquietante. Nuvole color della pece che strangolano il cielo sopra la Val Pellice. Ho guadato a fatica, prima di giungere qui, a tu per tu con la tragedia di un attimo d’inferno, il lago che è diventata la via vecchia di San Giovanni. Un tunnel nel verde dove tutto è fradicio. Persino i cavalli e le vacche. Che gli agricoltori e i pastori non hanno fatto in tempo a richiamare dentro le stalle, quando si è scatenato il pandemonio. Zuppi, anche loro, cavalli e vacche. Lanciano urla che somigliano a singhiozzi, verso il cielo. Un cielo sempre più minacciosamente invaso da quella strana bambagia. Nera. Anche adesso che ha ripreso a piovere, mentre scrivo queste righe, asserragliato nell’auto. Anche adesso, come in mattinata. C’era una casa, poche ore fa, giusto qui davanti. Ora, sotto una montagna di fango e sassi, in un irrespirabile odore di gas, spunta solo del fumo da un mozzicone di comignolo. Sembra l’ultimo segno di vita che di solito scivola fuori, quando una nave si inabissa. Vita non c’è più, in quella casa.
Ci abitava Carlo Rivoira, 75 anni. Saranno state le 10,30: nonno Carlo stava riposando, e così l’hanno trovato, ancora avvolto nella sua coperta. È stato un lampo, quando, come dice la gente di frazione Garin, che sta facendo capannello intorno a questo strazio, «è arrivato il terremoto».
«È successo tutto in una manciata di secondi. Terribili. Mi sembrava che venisse giù tutta la montagna», racconta Riccardo Velot che, più o meno, avrà l’età dell’uomo che hanno da poco estratto dalle macerie, seguendo il fiuto dei cani.
Dentro, o meglio sotto questa massa informe, ci sono ancora sua figlia Erika Poet, di 45 anni e la nipotina Annik di tre anni. Le stavano ancora cercando a tarda sera, alla luce delle fotoelettriche. Scavando, piano piano. A mani nude, trattenendo il respiro della speranza e districandosi, come si può fare, in questo groviglio di pietre e fango, che è diventato una trappola mortale. Ma la frana non ha sbranato solo la casetta gialla di nonno Carlo. Ha risparmiato, per quegli strani doni del destino, la casa di pochi metri accanto, e la cascina, che stanno ancora ristrutturando, dopo l’alluvione del 2000. Ha fatto polpette di tre auto, un trattore e un’ambulanza, sfiorando tre persone, e ha inghiottito, rotolando dal lato opposto, l’auto sui cui si trovava Vasile Marius Urzica, romeno, 30 anni, l’uomo, che abitava a Torre Pellice, stava andando al lavoro in una falegnameria di Villar. Un automobilista che lo seguiva ha fatto in tempo a fermarsi e a ingranare la retromarcia. Poi ha chiuso gli occhi, raccomandandosi l’anima a Dio.
Adesso la gente spartana di questi luoghi d’incanto, mormora che c’era da aspettarselo. Era da troppo tempo che pioveva. «Pioveva a dirotto da tre settimane, i piccoli ruscelli e i corsi d’acqua sembravano dei mostri. Il terreno non era più in grado di assorbire la pioggia», sibila Renzo Faraoni. E così la frana omicida sarebbe partita dalle piogge che hanno ingrossato il Cassarot, il torrente che scorre poco distante. Si è alzato un metro e mezzo, il Cassarot.
Ma anche il Pellice è in piena e l’Angrogna, che ho appena passato prima di arrivare qui, sembra male avviato. Con quella vena gonfia di fango e di pietre che sta trascinando a valle. Al posto di blocco di Chabrols, all’uscita di Torre Pellice, a poche centinaia di metri dal ponte che dà sul torrente Carofrate, la vigilessa di guardia, assieme agli uomini della Forestale, mi aveva detto che potevo proseguire, a mio rischio e pericolo, ma solo e comunque appoggiandomi a un mezzo di soccorso. L’ho fatta a piedi, fino a quest’orribile montagna, che nello stomaco tiene una casa e della gente che ci viveva. Pietrificati.
Gli uomini del soccorso hanno altro a cui pensare che ai giornalisti. Ha altro a cui pensare anche il sindaco di Villar Pellice, Bruna Frache, che ha disposto il divieto di transito su tutti i ponti che attraversano il torrente Pellice «fino alla cessazione dello stato di pericolosità».
Gabriele Villa
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