È stato Max Weber ad affermare ne La scienza come professione (1919) che «la tensione tra la sfera dei valori della scienza e quella della salvezza religiosa è insanabile». Il progresso scientifico dice Weber «è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale andiamo soggetti da secoli». E tale «progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione» sta a significare che «la coscienza o la fede che basta soltanto volere, per potere, ogni cosa in linea di principio può essere dominata con la ragione. Il che significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. È soprattutto questo il significato della intellettualizzazione come tale». Insomma: «È il destino dell'epoca nostra, con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i valori supremi e sublimi sian divenuti estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti immediati e diretti tra i singoli».
Per Weber, dunque, è quello di un aut-aut il rapporto tra la sfera dei valori della scienza e quella dei valori religiosi. Ma la situazione è proprio questa? Un mondo disincantato dalla scienza, letto cioè dalle teorie scientifiche, è un mondo che implica di necessità la negazione di un Creatore oppure è un mondo in cui dalla fede del credente vengono strappate via le croste di ataviche superstizioni? Un mondo senza ninfe dietro a una sorgente o senza un irritato Giove che lancia fulmini sugli uomini è davvero un universo in grado di proibire senza appello ogni traccia di Trascendenza? E poi questione di maggior rilievo è la scienza che desacralizza il mondo ovvero il mondo, per essere investigato scientificamente, dev'essere un mondo già desacralizzato, disincantato? Ecco, a tal riguardo, la fondamentale proposta di Max Scheler in Sociologia del sapere (1924): «Bisogna, innanzi tutto, farla finita con l'errore molto condiviso che la scienza positiva (e il suo movimento progressivo) abbia mai potuto e mai possa, fintanto che essa rimane nei suoi limiti essenziali, torcere un sol capello alla religione. Questa tesi, sia essa sostenuta da credenti o da increduli, è sempre ugualmente falsa». Falsa, per la ragione che «i tabù, che le religioni hanno impresso ai più diversi ambiti della conoscenza umana, dichiarando le rispettive cose come sacre e come articoli di fede, debbono perdere questo carattere di tabù per motivi religiosi o metafisici propri, e tornare a essere oggetti di scienza. Finché la natura è colma, per un dato gruppo, di forze personali e demoniache, essa è nella misura in cui lo è, esattamente ancora un tabù per la scienza. Chi considera le stelle come divinità visibili, non è ancora maturo per una astronomia scientifica». Di seguito la tesi di fondo proposta da Scheler: «Il monoteismo creazionistico giudaico-cristiano e la sua vittoria sulla religione e sulla metafisica del mondo antico fu senza dubbio la prima fondamentale possibilità per porre in libertà la ricerca sistematica della natura. Fu un mettere in libertà la natura per la scienza in un ordine di grandezza che forse oltrepassa tutto ciò che fino a oggi è accaduto in Occidente».
E tutto ciò per la ragione che «il Dio spirituale di volontà e di lavoro, il Creatore che nessun greco e nessun romano, nessun Platone e Aristotele conobbe, è stato la maggior santificazione dell'idea del lavoro e del dominio sopra le cose infraumane; e nel medesimo tempo operò la più grande disanimazione, mortificazione, distanziazione e razionalizzazione della natura, che abbia mai avuto luogo, in rapporto alle culture asiatiche e
all'antichità».Una proposta, dunque, questa di Scheler che rovescia la tesi weberiana di un mondo disincantato senza Dio, proponendo un diverso rapporto tra ricerca scientifica e monoteismo creazionistico giudaico-cristiano.
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