La scommessa di Olmert

Nella politica israeliana il paradosso è sempre di casa. C’è ad esempio il paradosso di un primo ministro, sbeffeggiato quotidianamente dai media, sconfessato nei sondaggi, invitato dal suo più popolare ministro degli Esteri e dal suo potente ministro socialista a dimettersi ma che si guarda bene dal farlo. Anzi rinforza costantemente la sua posizione parlamentare e internazionale se non la sua credibilità personale. C’è il paradosso di Benjamin Netanyahu, capo dell’opposizione. Ha trionfato nelle primarie del Likud e ora sfida Ehud Olmert a nuove elezioni anticipate. Molti a Gerusalemme tuttavia si rendono conto che queste sue dichiarazioni hanno lo scopo di rinforzare il suo controllo sulla malconcia destra israeliana, ma sono prive di ogni interesse affinché il premier lasci il governo. È chiaro a tutti che prima o poi Israele dovrà raggiungere un compromesso coi palestinesi, compromesso che Netanyahu non potrebbe mai realizzare perché implicherebbe l’evacuazione dei coloni dalla Cisgiordania.
Il premier Olmert per la sua sopravvivenza punta molto sul raggiungimento di un compromesso politico e territoriale con Abu Mazen. Non respinge perciò l’idea avanzata da Terje Roed-Larsen, il norvegese rappresentante dell’Onu nella Regione. Larsen ha sottoposto «in maniera privata» ai governi israeliano, palestinese, americano, giordano, egiziano e saudita un piano che si fonda su una semplice verità: tutti sono stufi del conflitto palestinese e si rendono conto che un successo, anche piccolo ma concreto, farebbe in questo momento comodo a molti.
Il successo potrebbe essere realizzato con un accordo di principio per il riconoscimento immediato di uno Stato palestinese con frontiere «temporaneamente non definite» e potrebbe essere un tema di interesse comune da discutere alla conferenza internazionale di pace prevista per novembre. Questo Stato palestinese riconosciuto da Israele rappresenterebbe un enorme successo, non solo di immagine, per Abu Mazen; lo farebbe uscire dalle strettoie dell’Anp ereditata da Arafat giustificando la creazione di nuove istituzioni meno dipendenti dall’Olp e da Al Fatah e soprattutto nuove elezioni. Un accordo su un piano del genere aiuterebbe Arabia Saudita, Giordania ed Egitto ad allargare il loro sostegno per il presidente palestinese e soprattutto Israele a sviluppare rapporti nuovi coi palestinesi senza essere accusato di avvantaggiare una parte di loro contro l’altra. Netanyahu conscio della stanchezza del pubblico israeliano e del fatto che nessun accordo può essere raggiunto coi palestinesi senza l’evacuazione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, preferisce che sia Olmert a condurre questa operazione che il suo partito e i coloni aborriscono. Salvo poi riconquistare il potere nelle prossime elezioni con la continuazione della politica economica e sociale che ha portato avanti con successo come ministro delle Finanze nel governo Sharon. Quanto a Olmert egli punta tutte le sue carte su un possibile accordo coi palestinesi e, se le condizioni lo permettono, anche con la Siria. Intanto ha già incassato un forte incentivo con la firma, ieri, dell’accordo finanziario con Washington che garantisce a Israele ben 30 miliardi di dollari in aiuti militari nei prossimi dieci anni. Un regalo del genere non viene fatto a un primo ministro perdente.
Naturalmente la soluzione del conflitto è ancora lontana e Hamas e gli hezbollah dal Libano faranno di tutto, come in passato, per far naufragare la conferenza di pace. Olmert e Netanyahu sanno però che questa volta Israele non è più solo ad affrontare il pericolo islamico. Forse a Roma non se ne rendono conto.

Ma il contratto per la creazione di una zona industriale che i ministri degli Esteri israeliano, palestinese e del Giappone - grande promotore e finanziatore del progetto - hanno firmato mercoledì a Gerico è più un atto di fiducia che di speranza sull’avvenire di questa martoriata Terra Santa.
R. A. Segre

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