Scrissi a Vonnegut per la prima volta nel 1979. Ero un ragazzo ingenuo, con una conoscenza dellinglese meno che approssimativa. Scrissi quella lettera compitando parola per parola, con laiuto di un dizionario preso in prestito da un compagno duniversità. Avevo appena letto Mattatoio numero 5 e ci tenevo a dire al suo autore che quel libro aveva cambiato il mio modo di pensare alla vita. Lo feci, cercando di trovare le parole in quella lingua che non conoscevo. La riscrissi, credo, più o meno una ventina di volte, sulla mia Olivetti Lettera 32, e alla fine la spedii, indirizzandola presso la casa editrice dellunico tascabile americano di Vonnegut che ero riuscito a trovare a Trieste, dove studiavo.
Non ebbi mai risposta. Ci rimasi male, ma non più di tanto. Laspettai per un po, una risposta a quella lettera, e poi me ne dimenticai. A ventidue anni ci sono un sacco di altre cose cui pensare. E poi l'America, a un ragazzo di provincia dallora, sembrava lontana come la Luna. Lunico modo di arrivarci era attraverso le canzoni e i film. E i libri, ovviamente.
Passarono dieci anni esatti, e un giorno, su una rivista della mia ragazza, vidi una foto di Vonnegut sullo sfondo di una spiaggia dallaria nordica: dune di sabbia, e una fila di case in legno affacciate sul mare. Su un cartello stradale appariva il nome del posto: Sagawponack. Così ai primi dottobre del 1989 scrissi di nuovo la mia lettera. Ma non era più la stessa. Stavolta avevo letto tutti i suoi libri, anche quelli ancora non tradotti in italiano. E il mio inglese era migliorato. Scrissi la lettera sulla tastiera di un PC IBM, e la indirizzai così: Mr. Kurt Vonnegut, writer, Sagawponack, Long Island, New York, USA. Cosa gli scrissi? Che il suo lavoro aveva cambiato il mio modo di pensare alla vita, ovviamente. Che mi aveva formato il carattere. E che infine trovavo straordinario il modo in cui riusciva a usare lumorismo come chiave di lettura di cose tragiche come la morte, o la guerra.
Aspettai per un po una risposta alla lettera, e poi me ne dimenticai. A trentadue anni ci sono un sacco di altre cose cui pensare. Finché un giorno, a metà novembre, non trovai nella buca delle lettere una busta leggera, Air Mail, con il timbro del paese che per me era diventato un luogo mitico come Camelot, o Woodstock. Il timbro diceva: SAGAWPONACK.
Andai nellufficio di papà, perché non volevo aprire quella lettera con un coltello da cucina, o un comune paio di forbici. La aprii con un tagliacarte dal manico rivestito in cuoio. Dentro la busta cera un foglio di carta leggero, che aveva attraversato in volo lOceano Atlantico. Era la lettera di Vonnegut. Una decina di righe, in cui, in risposta alle mie osservazioni circa il fatto che Galapagos mi sembrava il suo libro più pessimista, diceva che era colpito da come il mondo stesse peggiorando sempre più in fretta, e che si sentiva ormai come Giobbe, «con la Natura pronta a punirci, al posto di Dio. Come mai è così divertente?».
Tipico di Vonnegut, rispondere a una domanda con unaltra domanda. Quando sfoglio i dialoghi socratici faccio sempre più fatica a non vedere la sua faccia, dietro le spalle del filosofo greco. Vonnegut con i capelli scompigliati e una sigaretta accesa, come nellautocaricatura che disegnò in fondo a quellunica lettera che conservo come un tesoro. Vonnegut che dietro la sua firma metteva sempre il simbolo di un asterisco. Chi sa cosa significava, quellasterisco, sa anche quanto caustico potesse essere lumorismo di quel grande americano per il quale la massima virtù americana era lanticonformismo, lessere sempre vigili e critici nei confronti di qualsiasi potere. Passarono esattamente altri dieci anni prima che scrivessi la mia seconda lettera a uno scrittore. Prima, insomma, che trovassi un altro autore cui valesse la pena di scrivere. Una lunga fedeltà.
Vonnegut non lho più disturbato. Davo per scontato che sarebbe vissuto per sempre. Come continuerà, in fondo, a fare, anche se non potrà più accendersi lennesima sigaretta, o rispondere a una lettera. Era un uomo buono e intelligente.
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