Non ci fu nessun sequestro di persona: «il fatto non sussiste». È dalla formula con cui venerdì sera il tribunale di Palermo ha assolto il vicepremier Matteo Salvini nel processo Open Arms che bisogna partire per ricostruire come i giudici siano arrivati alla loro decisione. Una decisione arrivata dopo otto ore di camera di consiglio: una durata quasi modesta, vista la complessità del caso, tale da non far pensare a divisioni nel tribunale presieduto da Roberto Murgia.
Il capo d'accusa più insidioso per Salvini era quello penalmente meno grave, il rifiuto di atti d'ufficio. Nella ricostruzione della Procura palermitana, il rifiuto illecito consisteva nella mancata indicazione da parte dell'allora ministro degli Interni al comandante della Open Arm, di un Pos (Post of safety) almeno a partire dal 14 agosto, dopo che la nave aveva rifiutato la proposta del governo di Malta di fare scendere solo trentanove migranti. Nella richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini (accolta dal Senato) si sosteneva che «sussisteva a carico dello Stato italiano» l'obbligo di indicare un Pos, e che l'unico a decidere era il ministro: «va evidenziato l'indiscutibile ruolo di primo piano svolto (e per certi versi, rivendicato) dal ministro Salvini».
Nella sua memoria depositata il 18 ottobre, dopo la richiesta di condanna a sei anni di carcere avanzata dai pubblici ministeri, il vicepremier aveva negato con forza che in quell'agosto 2019 l'Italia fosse già obbligata a assegnare i Pos, visto che gli accordi di redistribuzione dei profughi con gli altri paesi europei non erano ancora operativi: «non sussisteva in capo allo scrivente alcun obbligo di indicazione del place of safety ai fini dello sbarco dei migranti», ha scritto Salvini ai giudici. É questo, verosimilmente, il passaggio chiave del processo. La tesi dell'accusa, secondo cui invece «la mancata indicazione di un Pos alla motonave Open Arms è illegittima per violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare» viene respinta dal tribunale. Non c'era un obbligo di Pos, quindi non c'è un reato.
Abbastanza chiaro anche come i giudici sono arrivati a assolvere Salvini anche dal reato più pesante, il sequestro di persona (aggravato dall'«abuso di potere» e dalla presenza di minori sulla nave). Anche qui, alla base della loro accusa i pm mettevano la violazione dell'obbligo di assegnare un post of safety alla nave, come chiesto tre volte dal suo comandante: da quel momento in poi, e per i sei giorni in cui la Open Arms restò alla fonda a Lampedusa, impedire ai migranti di scendere a terra si sarebbe tramutato in un sequestro. «La loro permanenza a bordo, per le precarie condizioni sanitarie, psico-fisiche e logistiche ha compresso in modo rilevane la loro libertà di movimento», era la tesi della Procura. Ma qui il lungo processo ha dimostrato, ha sottolineato Salvini nella sua memoria, la «esistenza di una continuità di varchi idonei a consentire lo sbarco dei migranti».
In particolare per Salvini l'aggravante di avere trattenuto a bordo i minori era smentita dal fatto che poi «lo sbarco avvenne senza alcuna autorizzazione né indicazione» da parte del ministro. E quanto agli adulti rimasti per sei giorni a bordo «non è configurabile il sequestro di persona quando sussiste una via di fuga percorribile» e «nel caso Open Arms si presentarono molteplici alternative per i migranti di sbarcare: anche perché «non vi erano condizioni meteo sfavorevoli che impedissero alla nave di salpare», dopo avere fatto scendere i malati. In ogni caso per Salvini il processo ha dimostrato che «la nave Open Arms era certamente un luogo sicuro temporaneo» e che «mai i migranti si sono trovati in pericolo di vita da quando l'imbarcazione entrò nella rada del porto di Lampedusa il 15 agosto 2019 fino al momento dello sbarco».
Sono questi gli argomenti che nella sua replica di venerdì mattina il procuratore aggiunto Marzia Sabella ha cercato di smontare prima che il tribunale entrasse in camera di consiglio: «la difesa
di Matteo Salvini ha fornito nella memoria depositata una lettura non in linea con le risultanze probatorie», ha detto la rappresentante della accusa. Invece, evidentemente, era vero il contrario: «Il fatto non sussiste».
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