Lo scrittore di frontiera in cammino sulla strada di un mondo letterario che non è per tutti

È stato l'autore americano più grande del suo tempo. Vinse un Pulitzer e il film tratto da "Non è un paese per vecchi" quattro Oscar. Ma avrebbe meritato il Nobel. Aveva 89 anni ed era un mito vivente

Lo scrittore di frontiera in cammino sulla strada di un mondo letterario che non è per tutti

Dovrei ripetere le parole che Boris Pasternak usò per descrivere la morte di Lev Tolstoj, perché ripetere, a volte, è sufficiente. «La terra arata riposava; balenava nei finestrini del vagone e non sapeva che lì vicino, vicinissimo, era spirato il suo ultimo gigante, colui che per lignaggio avrebbe potuto esserne il re». A Tolstoj, Cormac McCarthy preferiva Dostoevskij, uno dei pochi ad aver spazio nel suo canone, ristrettissimo (non sopportava Proust, amava Herman Melville). Come Tolstoj, Cormac McCarthy è l'ultimo erede della tradizione del romanzo «morale» cioè, naturalmente immorale. Ha ricevuto la stola da Melville e da William Faulkner per farne un lazo; ha maneggiato la tiara voltandola in orinatoio; ha fatto del West e del confine il luogo della verità suprema, lo spazio in cui Dio si rivela per ciò che è, un demone rovesciato, la divinità cannibale, con le iene come regali epiteti.

Avrebbe compiuto 90 anni il mese prossimo, Cormac McCarthy, l'ultimo erede del grande romanzo americano. Era nato nel 1933 a Providence, Rhode Island, da una famiglia di origine irlandese, cattolica. Di lui, ormai, si sa tutto: la vita randagia, le tre mogli, la povertà come addestramento, la reclusione tra gli scienziati del Santa Fe Institute. La prima moglie, Lee Holleman, una compagna di studi, lo mollò dopo un anno; la seconda, Anne DeLisle, lo conosce su una nave che va in Irlanda, fa la cantante: è il 1965, Cormac ha appena pubblicato The Orchard Keeper (Il guardiano del frutteto secondo Einaudi, che ne stampa i romanzi) e una borsa di studio della Rockefeller Foundation gli permette di scrivere Outer Dark (1968), cupa storia di un incesto tradotta con genio da Raul Montanari come Il buio fuori che costituisce il recto', per così dire, dell'ultimo romanzo, Il passeggero. Per otto anni McCarthy costringe la moglie in una stalla, alla periferia di Knoxville. «Vivevamo in una povertà agghiacciante. Ci facevamo il bagno nel lago. Ogni tanto qualcuno chiamava, gli offriva 2mila dollari per parlare dei suoi libri in una qualche università. E lui rispondeva che tutto quello che aveva da dire era lì, sulla pagina. Dunque: avremmo mangiato fagioli per un'altra settimana», ha detto, anni fa, lei. Gli fu al fianco fino al 1981. L'ultima moglie, Jennifer Winkley, dura una decina di anni: il divorzio è siglato nel 2006, l'anno in cui esce The Road, il romanzo più puro, quello più semplice, quello più noto, che permette allo scrittore il Pulitzer. Bisognava conoscerlo prima, però, Cormac McCarthy. Coriaceo, impossibile, biblico. Era uno scrittore che non vendeva più di cinquemila copie a libro, ha scritto Richard B. Woodward, il giornalista del New York Times che insegue lo scrittore eremita, il più grande sconosciuto romanziere degli Stati Uniti d'America», fino a Mesilla, Nuovo Messico. Cormac ha appena pubblicato Cavalli selvaggi, il primo romanzo della Trilogia della Frontiera. È il 1992. Il giornalista esce con un lungo reportage, Cormac McCarthy's Venomous Fiction, che cambia, letteralmente, la vita dello scrittore. Cavalli selvaggi vince il National Book Award, viene tradotto in un brutto film con Matt Damon e Penélope Cruz, diventa un best seller. Cormac ha 59 anni e al giornalista parla dei «serpenti a sonagli del Mojave», di un grizzly che, una volta, ha tentato di farlo fuori, in Alaska, di una vita di vagabondaggi tra un motel e l'altro. Gli consiglia di «viaggiare sempre con una torcia ad alto voltaggio» e di leggere Wittgenstein. «Non esiste vita senza spargimento di sangue», dice McCarthy al giornalista, allucinato. «L'idea che la specie possa essere migliorata, in qualche modo, che tutti possano vivere in armonia, mi pare pericolosa. Chi è afflitto da questa nozione è il primo a rinunciare alla propria anima, alla propria libertà». La fatidica intervista a Oprah, rilasciata nel 2007, al confronto, è uno zuccherificio.

Cavalli selvaggi è anche il primo libro di Cormac che arriva in Italia: lo traduce Riccardo Duranti per l'editore Guida Tre anni dopo lo riprenderà Einaudi. Su Rai 2, a Totem, Alessandro Baricco legge dei brani da Oltre il confine (1994) e Cormac McCarthy sconfina nel pop. Il capolavoro assoluto, comunque, McCarthy lo scrive nella trincea di una solare solitudine: Blood Meridian (1985; in Italia esce come Meridiano di sangue, nel 1996) è tra i grandi libri della tradizione americana. Il suo anti-eroe, il Giudice Holden, ha una stazza più enigmatica del capitano Achab di Moby Dick; McCarthy riesce nel tentativo di costruire un romanzo epico che pare tratto dalle bibliche storie dei Re, efferatissime e dunque sacre, memorabili perché dissacranti. Nessuno gli è pari in questa ricerca ossessiva e bestiale, di chi custodisce l'egida brutale della tradizione in un'America soggiogata dal genio della soap e dal mito del successo. Harold Bloom è tra i rari a consacrarlo: «Meridiano di sangue (1985) mi sembra l'autentico romanzo americano apocalittico. La fama assoluta di Moby Dick e di Mentre morivo è accresciuta da Meridiano di sangue perché Cormac McCarthy è degno discepolo di Melville e di Faulkner. Nessun altro romanziere americano vivente, neanche Thomas Pynchon, ci ha regalato un libro così possente e memorabile come Meridiano di sangue il Giudice Holden è la figura più spaventosa di tutta la letteratura americana».

A pochi è data la benedizione di morire avendo fatto tutto. Cormac McCarthy muore dopo aver sigillato la propria personale epopea romanzesca: Stella Maris il capitolo conclusivo di The Passenger è un delirio con le stimmate, l'opera di un Isaia demente, di uno stolto in Cristo che conosce i codici del mondo. Autentico antidoto agli Elon Musk, ai Bill Gates di oggi e di domani, Cormac McCarthy, «Novelist of a Darker America», è una specie di Diogene del nuovo mondo, è l'Empedocle e l'Etna del romanzo occidentale. È morto se vi va come David Bowie, che spira sul ciglio dell'ultima ispirazione, Blackstar.

Purtroppo, il cinema non l'ha trattato bene. The Road, il film di John Hillicoat (2009) è pappa modesta; The Counselor (2013), il pretenzioso filmoide di Ridley Scott è brutto. Anche l'editoria italiana, in effetti, lo ha trattato con malcelato tatto. The Stonemason, testo teatrale del 1994, è ancora inedito: scenicamente sfortunato, politicamente scorretto, ha alcuni passi meravigliosi. Rimediate.

Abbiamo avuto il privilegio di vivere in questo tempo,

altrimenti bastardo, anche soltanto per leggere Cormac McCarthy. Non è poco. Ora mi immagino Cormac che in verità si chiamava Charles Jr., un nome molto più docile piegato come un giaguaro, mentre inghiotte stelle a manciate.

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