Il dodici giugno del 1923 Franz Kafka è in una piccola località del mar Baltico con la sorella Ottla. Sono giorni difficili, ha avuto sbocchi di sangue e malori in tutti i mesi precedenti, entro un anno morirà di tubercolosi. I segni della malattia sono così evidenti che quella residenza estiva viene considerata l'ultima speranza. Lì Kafka lavora ai racconti de Un digiunatore e conosce Dora Diamant con cui andrà a vivere a Berlino nell'autunno del 1923. Il soggiorno Berlino gli sarà fatale. Il freddo della città, il poco carbone nella casa, la mancanza di sole, lo indeboliscono sino alle estreme conseguenze.
Morirà in un sanatorio nei pressi di Vienna, le sue ultime parole furono al suo amico Klopstock che gli stette accanto nelle fatali ore del tre giugno 1924.
«Non vado via» lo rassicurò l'amico. «Vado via io» rispose Kafka e spirò.
In quell'ultimo anno Kafka aveva scritto poco, chiuse una raccolta di racconti che sarebbe uscita postuma: Un digiunatore, pubblicato dalla casa editrice berlinese Das Schmiede. L'ultimo è Josefine, la cantante. L'explicit del racconto è dedicato alla protagonista Josefine, la cantante che fischia invece di cantare: «... in una redenzione superiore sarà dimenticata come tutti i suoi fratelli».
Sono un lettore semplice, ingenuo, con quella sfumatura inconfessata che hanno tutti i lettori che sperano di trovare nella pagina di un romanzo qualcosa che li riguardi. Il successo mondiale di Franz Kafka dopo la sua morte è una beffa se si pensa alla sua incredibile vita schiva e piena di dolore. Un dolore materiale, ma anche, e soprattutto, un dolore spirituale, anche se ho il sospetto che non esista un dolore dello spirito, ma più una sorta di incessante, amara inquietudine. Quella che hanno tutti i poeti e che William Butler Yates in Magia dichiarava essere l'unica condizione possibile per essere poeti: l'incertezza.
Ho cominciato da Kafka e dal dodici giugno 1923, poco meno di un anno prima che morisse, perché lui quel giorno scrisse l'ultima pagina del Diario che è giunta a noi. Il Tagebuch kafkiano, raccolto dal suo amico Max Brod come tutta la sua opera, è incompleto, mancano alcune pagine, l'ultima ha quella data, e Kafka scrive una frase scioccante.
«Jedes Wort, gewendet in der Hand der Geister - dieser Schwung der Hand ist ihre charak- teristische Bewegung - wird zum Spieß, gekehrt gegen den Sprecher».
Letteralmente vuol dire: Ogni parola viene rigirata nella mano degli spiriti - questo slancio della mano è il suo caratteristico movimento - diventa una lancia contro chi parla». La traduzione è quella di Ervino Pocar.
Chi sono gli spiriti che guidano la mano di Kafka, anzi, chi sono gli spiriti che spostano le parole, che addirittura le trasformano in una punta acuminata di lancia contro lo scrittore?
Mi sono dato varie risposte nel corso degli anni, ho riflettuto a lungo su quelle parole che mi hanno commosso e turbato. Quando lo lessi la prima volta avevo ventidue anni, ero un ragazzo solitario, innamorato, velleitario come molti ventenni a cavallo degli anni Novanta e i Duemila. Ero fissato con l'ossessione. Mi piacevano gli scrittori con un chiodo fisso. Studiavo legge autoconvincendomi perché lo aveva fatto Giovanni Raboni, il mio poeta preferito del tempo. Non ero soddisfatto, anche se dentro di me, una parte oscura, se ne compiaceva (anche Kafka è stato un riluttante, pensa che tapino ero). Leggevo e rileggevo La Metamorfosi, mi arrivava il male del suo autore, mi arrivava il male di Gregor Samsa, percepivo il male nel costato, dovuto a una mela lanciata dal padre esasperato contro il figlio Gregor trasformato in scarabeo. Uso «scarabeo» e non «scarafaggio» perché Kafka non ha mai usato la parola Kakerlak, ma un generico Ungeziefher, ossia insetto. Vladimir Nabokov disse che quello scarafaggio poteva somigliare a un coleottero, uno scarabeo, che ha valore simbolico. Kafka era attento ai simboli, i simboli sono immagini che inducono la mente a trovare dei mondi nuovi partendo da immagini lontane. Kafka li usa in modo grandioso, non si affida a una metafora, ma sceglie il racconto allegorico, costruisce pezzo dopo pezzo un edificio che non ha pari, tanto assurdo che oggi kafkiano diventa un aggettivo usato come sinonimo di paradossale, appunto assurdo. Facendogli un grande torto visto che Kafka non è uno scrittore dell'assurdo, ma uno scrittore av- venturoso, uno che osa, arriva in un punto dove sono arrivati pochi scrittori. Kafka vede quello che nessun altro vede, Kafka vede un altro mondo, è come se avesse intravisto la verità, o una delle nostre verità fondamentali e racconta quanto sia ri- dicola, quanto sia vana una vita incosciente della propria verità. Sono miei riflessioni che nascono da anni di letture, e non sono certamente all'altezza di una pubblicazione scientifica su Kafka, ma sono gradini che portano alla consapevolezza della mia esperienza esistenziale, quella che sto raccontando partendo dall'ultima pagina del suo diario, quella che cerca di rispondere alla domanda: chi sono gli spiriti di Kafka?
Perché ho sentito che quella frase non riguardasse soltanto lo scrittore praghese, ma anche tutti noi. Kafka aveva cominciato a morire, e ogni volta che si inizia a morire, ci si avvicina al mistero della vita, la grande verità che cerca l'uomo da quando c'è sempre stato.
C'è un'altra risposta a quegli spiriti, e parte di loro sono forse le energie che hanno condizionato la nostra vita, esperienze, legami, incontri speciali, ma non solo, anche i libri. Nell'ultimo romanzo ho inserito una zona in cui ho cercato di catalogare questi spiriti in modo un po' ossessivo ma coerente con la mia memoria di lettore. Si tratta di citazioni, omaggi e riferimenti a opere letterarie, luoghi ed eventi storici, qualche piccolo dato reale deformato e trasfigurato dalla lente narrati- va. Sono una sorta di debiti, quelli che Robert Walser nel suo La passeggiata chiamava Scrittoio o Stanza degli Spiriti.
Molti di questi spiriti spesso non sono visibili, appartengono a scrittori che si sono depositati nella memoria e riemergono solo nelle necessità che la vita ci presenta man mano, a volte hanno fattezze di romanzi che abbiamo letto di cui non riusciamo a ricordare il nome dei personaggi e a volte neanche dell'autore. Ma ne resta vicino lo spirito, che appunto fedele all'origine antica da «spirare» è un soffio d'aria, impalpabile, inafferrabile, invisibile, ma vitale.
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