La scuola è uno dei grandi temi che oggi separano più nettamente la destra dalla sinistra. Il dibattito pubblico nel nostro Paese, da almeno dieci anni a questa parte, evidenzia sempre più chiaramente la differenza tra chi intende la scuola come strumento al servizio della persona e chi, invece, ritiene che essa debba riferirsi alla comunità e, in particolare, alla comunità nazionale. Da questa differenza fondamentale deriva, da un canto, l'idea che diverse ipotesi pedagogiche ed educative possano e debbano entrare in concorrenza tra loro; dall'altro quella di confermare il vigente modello di scuola unica, magari riveduta e corretta.
Deriva, di conseguenza, anche una diversa concezione del ruolo che lo Stato deve assolvere. La contrapposizione, in questo caso, non è tra i fautori dello «Stato presente» e quelli dello «Stato assente» perché, ad oggi, che allo Stato spettino compiti importanti nei processi educativi proprio nessuno lo mette in dubbio. Ma mentre a destra si ritiene che questi compiti risiedano nell'accreditamento dei presupposti sui quali diversi progetti educativi possano poi liberamente svilupparsi e concorrere, a sinistra si è fermi al vecchio ideale dello Stato gestore della scuola di tutti (anche se il ministro Fioroni si affanna a spacciare questa minestra riscaldata nella scuola del futuro).
Al cospetto dei cambiamenti della nostra società, interessata dalla presenza di gruppi sempre più numerosi che si riferiscono a culture e a religioni differenti, queste concezioni alternative sono destinate ad approfondirsi e ad acquisire una sempre maggiore importanza. Dall'educazione scolastica passa, infatti, una parte fondamentale delle politiche d'integrazione. Chi ripropone il modello della scuola unica ritiene, evidentemente, che esista ancora una religione civile dello Stato sovrordinata rispetto alle fedi o anche solo alle culture: una pericolosa illusione che il caso francese ha smascherato. Lì, nonostante l'eredità del mitico istitutore laico custode delle tavole sacre della cittadinanza, non si è riuscito ad evitare che i giovani immigrati di terza o quarta generazione mettessero a ferro e fuoco le banlieue. Non è difficile immaginare cosa potrà accadere nella scuola pubblica italiana, che gode di un'identità più debole di quella francese. Già in passato essa non ha resistito alle pretese egemonie di ideologie particolari. Perché non temere che nel futuro prossimo venturo essa possa trovarsi esposta a tentativi di conquista che ancor più profondamente mettano in discussione le tradizioni e i principi della nostra civiltà?
Per evitare tale rischio bisogna saper osare. È necessario che lo Stato, da gestore debole di una scuola unica in realtà di parte, si faccia promotore forte di una cittadinanza che non imponga a nessuno né di convertirsi né di ricacciare l'identità nel ghetto della propria coscienza. È necessario, in altri termini, che lo Stato accerti che tutte le ipotesi educative richiedenti un riconoscimento rispettino principi previi inderogabili, assicurino standard qualitativi minimi, risultino programmaticamente disposte all'interazione. Dovrà inoltre controllare che tali requisiti siano garantiti durante tutto il corso degli studi e, attraverso commissioni esterne, certificare i risultati conseguiti dagli alunni al momento del rilascio dei diplomi.
A questo modello si è riferito il Patriarca di Venezia Cardinale Angelo Scola in occasione dell'ultima festa del Redentore. Egli non ha chiesto favori per la scuola cattolica. Ha proposto una scuola realmente laica nella quale anche quegli islamici che intendano integrarsi e rispettare i principi che sono alla base della nostra civile convivenza potranno perseguire i propri progetti pedagogici. È un rischio, visto quanto è accaduto in madrasse e scuole di via Quaranta.
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