Se l’esperto d’arte non riconosce la vera arte

«Con i galleristi d’arte parlate di tutto, ma non di arte. Ne capiscono poco...». Parola di Picasso. E se lo diceva lui, c’è da credergli. L’elenco dei grandi pittori snobbati dal policromo mondo degli «esperti» (critici, giornalisti, curatori, sovrintendenti, direttori di musei e via burocr-art-izzando) è lungo. Un esempio per tutti: Van Gogh. Quando era in vita non riuscì a vendere neppure un quadro; i suoi girasoli erano considerati «poco verosimili» e nessun mercante del suo tempo li avrebbe inseriti in una pur misera mostra di paese.
Tanto per rimanere in Italia, i «buchi» di Lucio Fontana valsero al teorico del movimento spazialista il nomignolo di «el grattugia». E sapete chi fu ad appiopparlo? Alcuni galleristi milanesi: gli stessi che la «Merd d’Artist» di Piero Manzoni la definivano, più prosaicamente, una «stronzata». Italiani provinciali? No, il «vizio» di non capire subito ciò che poi segnerà un’epoca è - per così dire - geograficamente trasversale e non risparmia neppure gli americani, considerati assai «reattivi» quando si tratta di dettare le nuove tendenze che fanno mercato.
La conferma viene dalla scoperta fatta dalla rivista The Art Newspaper e ripresa dal quotidiano inglese The Independent. Protagonista della vicenda il direttore della Tate Gallery, Norman Reid, il pittore statunitense Mark Rothko. Siamo all’inizio degli anni ’60, quando Rothko bussa allo studio di Reid offrendogli 30 delle sue celebri tele. Reid ci pensa un’attimo e poi risponde: «No grazie, non abbiamo spazio. Ne possiamo accettare solo 9». Così facendo, in un colpo solo, la scelta di Reid fece perdere al proprio museo un tesoro da circa un miliardo di dollari. Grazie a una ricerca d’archivio, sono spuntate le lettere che testimoniano lo scambio di vedute tra Reid e Rothko. Un «romanzo» appassionante il cui primo capitolo parte nel 1958 quando Philip Johnson commissionò a Rothko di dipingere una serie di murales per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building di New York, un progetto che impegnò l’espressionista astratto (che però odiava la definizione «espressionista astratto») per più di un anno.
Una volta ultimato, Rothko pensò che non sarebbe stato dignitoso che le sue opere facessero da sfondo a una sala da pranzo, quindi decise di regalarle alla Tate. Che però, per «ragioni di spazio», ne accettò solo 9. Le stesse che costituiscono, ancora oggi, la Rothko Room, una delle sale più visitate della celebre galleria londinese.
Ma cosa sarebbe oggi la Rothko Room se, invece dei 9 pannelli accettati dal direttore Reid, avesse potuto ospitare tutte e 30 le tele offerte da Rothko? Sicuramente sarebbe stata la «stanza» museale più visitata al mondo. E la Tate avrebbe potuto contare su una mostra personale del valore di un miliardo di dollari in più.
La fortuna critica e di pubblico di Rothko è cresciuta infatti senza sosta sino a farlo divenire negli anni 2000 uno degli artisti più costosi al mondo.

Un suo quadro «White Center (Yellow, Pink and Lavender on Rose)» è stato venduto nel maggio 2007 da Sotheby's New York per la cifra record di 72,84 milioni di dollari, andando più che a triplicare il precedente record dell'artista, stabilito nel novembre 2005 da Christie's New York con «Homage to Matisse» venduto per 22.41 milioni di dollari.
Ma qual è il segreto del successo di Rothko? «Le sue tele - scrive Giuseppe Frangi - sembrano gemere in attesa di un parto. Di un qualcosa che non sono ancora loro, ma che loro anticipano».

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