SEBALD L’entomologo dell’esilio

Sono storie dentro cui perfino l’autore si perde (si perde via: rapito) come un favoloso esploratore. Guardingo e svagato come un cacciatore di tesori. Lento e puntuale come un pescatore di perle. Attento e noncurante, leggero e fulminante, accorto e trasognato come un acchiappanuvole o un acchiappafarfalle. The butterfly man, appunto, balena qua e là tra le pagine di Gli emigrati di Winfried Georg Sebald (Adelphi, pagg. 254, euro 18).
Appare e scompare col retino di garza dal manico lungo, il passo svelto, il balzo silenzioso. Si ferma un istante sullo schermo del proiettore: quel tanto che basta perché, prima che l’immagine scorra via con la diapositiva, il colpo d’occhio colga la figura del dottor Selwyn - «l’eremita decorativo» di Norwich, un lituano salpato per il Nuovo Mondo e sbarcato per sbaglio nel porto di Londra - ritratto sulle alture di Creta con pantaloni alla zuava, berretto e giubbetto estivo. E lo confonda con una foto di Nabokov scattata sulle montagne svizzere, ritagliata da una rivista locale e incollata dall’autore tra le pagine del libro che - come sempre i libri di Sebald - si offre quale collage di appunti, piantine, cartine, dagherrotipi, targhette, biglietti da visita, anastatiche di agende e diari.
Da un diario del 1913, guarda un po’, segreto memoire di mamma Luisa custodito dal figlio pittore e donato allo scrittore anglo-tedesco, salta di nuovo fuori il simpatico fuggente personaggio. Stavolta è un ragazzino che, prima di scappar via per i prati tedeschi in un sabato pomeriggio di settembre, libera dal suo vascolo prede dai nomi fantastici: «vanesse atlante, pavonie, cedronelle, sfingi ligustrine». Non saranno spillate in un insettario, bensì appuntate fra le note di una ragazza da marito che, appoggiato il cucchiaino accanto alla ciotola di mirtilli e latte acido, le prende al volo quale segno della sua imminente liberazione. Libere resteranno solo le farfalle nei sogni della promessa sposa, cui resterà solo il ricordo dell’amato prematuramente perduto.
Ma, anche acchiappate da Sebald, ancora catturate nel giardino di Ithaca, la clinica psichiatrica che parve promettere al prozio Adelwarth la meta di un confortevole ritorno, le effimere bestiole non smettono di far aleggiare l’illusione di un prossimo volo liberatore. «I was waiting for the butterfly man», dice il vecchio ebreo newyorkese nel ricovero, provato dagli elettroshock e animato solo dallo «struggente desiderio di veder distrutti in sé nel modo più radicale e irrevocabile il raziocinio e la memoria».
Non lo farà scontento il pronipote narratore ricostruendo il ricordo di lui nei suoi racconti. Il filo che li annoda è talmente elastico e sottile, le maglie della trama tanto friabili e fini che tutta la scrittura di Sebald riesce intessuta come il retino dell’acchiappafarfalle. Perciò dentro cascano oggetti - perle, tesori, nuvole, oltre che i volatori dell’estate - estranei al peso e alla durezza di storia, memoria e raziocinio. «Mele da fiaba», «l’emporio delle meraviglie», un paese dei balocchi cresciuto a dimensioni spropositate per il trastullo di un bambino gigante.
Alberghi spettrali, casinò regali, le ombre della servitù che si aggirava per i corridoi nascosti tra le pareti doppie delle case patrizie e la seta della biancheria che balenava tra i pizzi sotto l’abito «delle puledrine di stagione». Perciò è a tutti gli effetti un libro magico questo che narra sì di quattro storici «emigrati»: un maestro tedesco anni Trenta tradotto in un revenant francese, un ebreo baltico approdato in Inghilterra e trapiantato in un parco inselvatichito, un parente lontano partito per le Americhe anteguerra e mai incontrato in vita, un artista solitario e industrioso chiuso nel suo atelier tra le officine industriali di Manchester. Ma che, affidandosi al modo - «inatteso e improvviso» - che hanno i morti di ritornare, di più sorprendenti trasferte e trasmigrazioni rende conto.
Del lauro lusitano, i cipressi scozzesi, la vite canadese nei giardini del Norfolk, di un’Ithaca statunitense incredibile più di quella omerica e «delle cime innevate dell’Olimpo». Del fantasma di Ludwig Wittgenstein (già incontrato, zainetto in spalla, nel romanzo Austerlitz), le visioni di Gruenewald, gli scaloni sovrastati dagli affreschi di Tiepolo (Calasso avrà alzato un sopracciglio sorprendendo Max Ferber contemplarli, scrive Sebald, «con la testa arrovesciata nella residenza di Wuerzburg»). Del capotribù masai acclimatato nei Midlands per gestire un ristorante nel folto delle ciminiere. E delle tre sorelline giovani delle parche, camuffate con «filo fuso e forbici» tra le operaie tessili inglesi. Che si chiamassero «Rosa Luisa e Lea» piuttosto che «Nona Decuma e Morta» non ha importanza.


Così come, spezzata (anzitempo o a suo tempo?) l’esistenza del 57enne Sebald nell’incidente d’auto del 2001, ora pare indifferente che le sue tessitrici intrecciassero e recidessero il filo della vita o le maglie maliose della rete impugnata da «The Man with the Butterfly Net».

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