Il segreto della classica modernità

Diceva Georges Clemenceau che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali. Si potrebbe parafrasare la sua massima per la pittura, la scultura e l’architettura: cose troppo importanti per lasciarle ai critici d’arte. Prendiamo le cosiddette «città di fondazione», oggi considerate tra i maggiori esempi dell’urbanistica italiana moderna.
Prima, molto prima degli studiosi, sono stati i fotografi, i pittori, i pubblicitari, i grafici, i registi, ma anche i semplici turisti, spesso stranieri, ad accorgersi della bellezza misteriosa di quelle piazze e di quegli edifici, costruiti in pochi anni, a volte addirittura in pochi mesi (Sabaudia fu terminata in 253 giorni: un tempo che oggi serve al massimo a rifare una strada). Intendiamoci, all’epoca qualcuno si era accorto dell’importanza di quelle imprese architettoniche, e non solo da un punto di vista estetico. Stiamo parlando, per esempio, di Pound, che nel Canto XLI aveva descritto la bonifica delle Paludi Pontine in questi termini: «Prosciugò i pantani di Vada/ Le paludi sotto il Circeo, ove nessuno ci proverebbe./ Dopo duemila anni si mangiò grano dalle paludi;/ acqua potabile per dieci milioni di persone/ e un milione di “vani”./ Anno XI dell’era nostra».
Nel dopoguerra invece, e fino agli anni ’80, nessuno si è più occupato delle «città nuove», tanto che solo in tempi recenti ne è stato condotto un vero censimento. Quando si parlava di città di fondazione se ne nominavano pochissime: Littoria, Aprilia, Sabaudia, Pomezia, Guidonia... Invece tra città vere e proprie, villaggi operai, frazioni e borghi, sono circa ottanta in Italia le città costruite tra la fine degli anni ’20 e la fine dei ’30. E ad esse vanno aggiunti i nuovi nuclei urbanistici in Istria, Dalmazia, Libia, Etiopia, Rodi.
Eppure, con poche eccezioni (pensiamo, per citare solo due esempi, a studiosi di valore come Riccardo Mariani o Carlo Fabrizio Carli) i libri di architettura tacevano. Il pregiudizio ideologico era troppo forte, la paura di non essere politicamente corretti ancora di più. Così ci è voluto qualche fotografo, di solito giovane e impermeabile alle soggezioni accademiche, per capire che quelle geometrie di archi dechirichiani erano bellissime. Poi ha cominciato qualche pubblicitario, qualche art director, a intuire che quegli sfondi classico-surreali sprigionavano uno strano fascino. E che, come location per il lancio di una macchina o di un divano, quelle piazze così metafisiche erano molto meglio di tante piazze recenti, magari allietate da qualche orrenda scultura.
Perfino gli operatori della moda hanno approfittato di quegli sfondi per le loro sfilate.

E in ultimo sono arrivati i registi: chi non ha in mente Nanni Moretti che corre in motorino per i quartieri anni ’30 della periferia romana? Come mai tanti che probabilmente avevano studiato arte solo al liceo e che, se fossero stati interrogati, non avrebbero saputo dire, non diciamo i nomi degli architetti di quelle città (da Piccinato a Montuori, da Cancellotti a Scalpelli a Calza Bini), ma nemmeno l’epoca di quelle costruzioni; come mai, dunque, questi «non addetti ai lavori» ne capivano più di tanti storici dell’architettura? Non sarà che, come diceva Machado, «nessuno è più cieco di un dotto che si rifiuta di vedere»? Il fascino delle città di fondazione consiste in una sorta di classicità moderna: nella capacità, cioè, di reinterpretare archi e colonne in una sintesi pienamente contemporanea. E anche in una bellezza insieme precisa e sfuggente, semplice ed enigmatica: l’equivalente, in pietre e volumi, delle «piazze d’Italia» di de Chirico.

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