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di Eleonora Barbieri

Abitare è un abito, nel doppio senso: di abitudine (l'habitus degli antichi) e di vestito, di ciò che organizza le nostre vite e di ciò che copre (o rivela) i nostri corpi. È la lingua, dice l'antropologo Francesco Remotti, a dirci, già nella parola, la problematica che è racchiusa in essa: l'abitare, e la casa che ne è il luogo, è molteplice per natura. Ambigua e fondamentale, è il nostro «ventre materno» secondo l'interpretazione psicanalitica ma, allo stesso tempo, anche inabitabile per definizione: «L'Io non è padrone in casa propria» disse Freud. E questa è anche la condizione per essere, e pensare, e provare emozioni: alla casa non si sfugge, come lei non sfugge al nostro inseguimento. Ecco perché si intitola Le case dell'uomo (sottotitolo: Abitare il mondo) una raccolta di saggi, da poco pubblicata da Utet, dove sul tema si confrontano studiosi di vari discipline, dagli antropologi come Marc Augé, Adriano Favole e Francesco Remotti fino all'architetto Alessandro Mendini, che parla della «casa emozionale», una via di mezzo fra quella che è pura funzione e tecnologia e quella che è solo poesia, sentimento, «spazio psichico». O meglio, come spiegano gli psicologi Giuseppe Civitarese e Sara Boffito nel loro saggio Intime stanze, una «casa della psicanalisi» dove noi, appunto, per essere proprio noi, non siamo padroni in casa nostra. Dove ci si sente come la poetessa Marina Cvetaeva: «In tutto - in ogni persona e sentimento - io sto stretta, come in ogni stanza: di una tana o di un castello». Il gioco (dell'esistenza, non solo del design o dell'architettura...) consiste proprio nel riuscire ad abitare più stanze possibili e, magari, ad ampliare il mobilio e l'appartamento. Costruirci case, come da bambini, che non siano solo rifugi della mente. Case che - come nota il filosofo del Linguaggio Felice Cimatti - sono tutt'altro dai rifugi degli animali: la tana non è divisa dall'ambiente, è «una tappa dell'incessante movimento vitale»; mentre il nostro bisogno primario, di uomini, è di fermarci (o almeno garantirci l'illusione di farlo...) e quindi la casa è confine, protezione, muro.

Però, allo stesso tempo, è un confine familiare, in cui la nostra mente e la nostra creatività spaziano, costruiscono e si costruiscono, vivono, e abitano, alla fine. Per cercare quello che si cerca dentro e fuori: una porta dietro cui spingere l'angoscia, una finestrella da cui sbirciare qualche attimo di felicità.

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