Gorizia - È come se don Camillo si «spretasse» per mettersi dalla parte di Peppone&compagni. C'è chi legge così il caso nazionale, che sta scuotendo la quiete del Vaticano, di don Andrea Bellavite, prete-contro, classe '59, ordinato nell'84, parroco di Gorizia dove è arrivato nel '68, in prima fila in tutte le battaglie contro la guerra, i Cpt e le basi militari di Vicenza e Aviano, che si è reso disponibile a candidarsi a sindaco del capoluogo isontino per l'ala della sinistra massimalista: Rifondazione, Pdci, verdi e Forum delle associazioni per Gorizia. Le alte sfere, sfidate, hanno reagito: è stato addirittura il segretario del Tribunale della segnatura apostolica, Velasio De Polis, a ribadire l'incompatibilità di un prete-sindaco con il ruolo ecclesiastico.
Don Andrea, consulente della giunta regionale di centrosinistra del Friuli Venezia Giulia e coordinatore del gruppo di lavoro che ha partorito il progetto di legge sulla pace, lo sa bene. Ed è pronto ad affrontare le conseguenze, ovvero la sospensione a divinis, nel caso in cui la sua candidatura diventasse a tutti gli effetti concreta. Lui pone un’unica condizione: che tutto il centrosinistra punti sul suo nome. Con aria serafica spiega: «È vero, sono un disobbediente nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche, ma in questo mio percorso di vita la scelta politica rappresenta un modo per applicare il Vangelo e servire i poveri». E per far questo non le basta adempiere la sua missione di prete? «Da tempo mi sentivo costretto dentro le maglie ecclesiastiche e non riuscivo a esprimere quello che avevo dentro il cuore», rivela con la schiettezza che lo caratterizza. E che forse è all’origine delle sue dimissioni da direttore de «La Voce isontina», settimanale della diocesi goriziana.
Un addio dovuto non solo alle sue ambizioni politiche, ma anche, secondo indiscrezioni, per un articolo non gradito all'arcivescovo di Gorizia, Dino De Antoni, sull'amore omosessuale, tema su cui il quasi ex «don» riconferma la sua teoria: «I Dico servono soprattutto alle coppie omosessuali, non ravviso alcun problema etico, non si tratta mica di matrimonio fra omosessuali... ».
Adesso, in prospettiva della discesa nell'agone politico che sembra essere maturata di ritorno da un viaggio in Libano con un'associazione umanitaria, a don Andrea sta stretto anche quel titolo di «don»: «Chiamatemi semplicemente Andrea... ». Una rinuncia che non viene vissuta superficialmente: «Soffro, è ovvio, ma dall'altro lato sono convinto di poter servire il Vangelo anche da semplice cittadino, non ho paura della sospensione». Deciso ma non arrogante il «prete rosso» non vuole sentire parlare di sfide: «Non voglio sfidare nessuno. Anzi sono stato io a rimettere nelle mani dell'arcivescovo la sospensione, perché sono il primo a sapere che la Chiesa ha il suo programma, che rispetto».
Sembra quasi che per don Andrea la politica riesca a dare più risposte rispetto alla Chiesa. È così? «Non voglio dire che tutti i preti debbano fare politica. Nel mio caso, però, anche questa è una vocazione, civica, certo, ma comunque una missione che rientra in un mio percorso di fede e di vita». La disobbedienza verso le istituzioni ecclesiastiche, quindi, si scontra con l'obbedienza alla chiamata civica, anzi «a una chiamata della mia coscienza».
Intanto, mentre Rifondazione comunista, con il consigliere regionale Kristian Franzil dà quasi per scontato il patto («per noi è lui, don Andrea, il nostro candidato»), il papabile continua a ricordare che la sua disponibilità è vincolata all'unità del centrosinistra su un solo nome.
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