Uno scampolo di passato che non passa, una cartolina dagli Anni Settanta. L’altro ieri davanti a via Pareto, zona Cimitero Maggiore, si è riproposto un vecchio schema: la sinistra ultraradicale (no global, centri sociali, gruppuscoli di occupanti abusivi, rifondaroli sfusi) che cerca d’impedire l’inaugurazione di una sede «nera» e attacca le forze di polizia, fra petardi e sassaiole. In nome dell’«antifascismo militante» che secondo i sinistri dovrebbe legittimare ogni forma di squadrismo rosso. Il rifiuto della stragrande maggioranza dei cittadini per queste forme di archeologia è chiaro e netto, ma non impedisce che un’infima minoranza si eserciti in un accanimento poco terapeutico. Il dissenso va difeso, sia chiaro, ma la violenza non può essere tollerata: i «sabati del selvaggio» non debbono ripetersi.
Resta da chiedersi il perché di questa fiammata di ritorno, alla quale non sono estranei i ragazzi del Leoncavallo, che restano il nerbo della protesta dell’ultrasinistra. È evidente che una certa parte politica marginale ripercorre vecchi sentieri per rassicurarsi sulla sua esistenza, ma non è da escludere che proprio il Leonka abbia voluto dare una dimostrazione «muscolare» prima che le autorità decidano la sua sorte. Il 22 settembre scade il rinvio per l’ultima intimazione di sfratto dalla sede occupata in via Watteau. C’è chi pensa che il Leoncavallo possa essere «legalizzato», previa abiura alla logica e alla pratica della violenza.
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