SIGNOR PRESIDENTE NOI NON ARCHIVIAMO

Nemmeno le ultime rivelazioni del Giornale, alle quali oggi aggiungiamo un altro significativo tassello, hanno indotto il presidente della Camera a cambiare la sua strategia sulla vicenda dell’appartamento monegasco: zitto anche di fronte all’inquietante doppia firma (del «cognato» Giancarlo Tulliani?) sul contratto d’affitto. Un silenzio pesantissimo. Tanto che persino Antonio Di Pietro, certo non tenero con il Giornale che accusa di «dossieraggi», ieri è stato costretto a confessare: «Fini doveva rendere noti tutti i passaggi della casa di Montecarlo. Probabilmente non può farlo, ma se c’è qualcosa che non va bene è opportuno che i cittadini sappiano quello che non va bene».
È duro ammetterlo, ma per una volta l’ex Pm ha detto cose sensate: i cittadini hanno diritto di sapere se la terza carica dello Stato ha detto la verità o ha raccontato agli italiani una montagna di bugie. È il motivo per il quale stiamo conducendo questa inchiesta. E - dopo quasi due mesi di giustificazioni smentite dai fatti prima, minacce di querele poi e infine mutismo assoluto - è sempre più forte il dubbio che Fini non possa raccontare come stiano effettivamente le cose. Che non sia cioè in grado di spiegare come mai un appartamento lasciato in eredità al suo partito sia stato venduto (ignorando altre offerte d’acquisto ben più vantaggiose) a una cifra che tutti gli esperti interpellati stimano essere un quarto o un quinto del suo valore. Perché sia stato ceduto a una società domiciliata in un paradiso fiscale. Perché ora, dopo aver seguito in prima persona i lavori di ristrutturazione, vi abiti il «cognato». Se Giancarlo Tulliani sia «solo» un inquilino in affitto oppure, come molti, troppi indizi indurrebbero a credere, sia il vero proprietario dell’immobile.
Una faccenduola piuttosto imbarazzante, come si vede, malgrado i moltissimi nuovi e interessati protettori di Fini si affannino a sminuirla, anche e soprattutto su quei giornali fino a non molto tempo fa inclini a massacrare l’ex leader di An. Ma è il tributo da pagare all’uomo sul quale si punta per azzoppare il governo, prospettiva di fronte alla quale tutto il resto passa in secondo piano.
Protetto dal muro di gomma della gran parte dei mass media, Fini può dunque giocare a fare il muto di Montecarlo; aspettando e sperando che a togliergli le castagne dal fuoco sia alla fine quella magistratura da lui vistosamente corteggiata da un po’ di tempo a questa parte. Qualora la Procura di Roma dovesse, come qualcuno già mormora, archiviare l’inchiesta per truffa aggravata aperta quest’estate, il presidente della Camera ritroverebbe di colpo la parola per tentare di uscire alla Travaglio dall’imbarazzante situazione: «Visto? Non c’è reato. Quindi non è successo nulla».
E invece non è così. La questione non è mai stata (o almeno non prevalentemente) giudiziaria, bensì etica. Da (ex) leader di partito Fini ha l’obbligo di fugare il sospetto di aver disposto a suo vantaggio di un bene che apparteneva a tutti gli iscritti.

Da presidente della Camera deve convincere gli italiani, ai quali ha impartito per mesi lezioni di legalità e moralità, di non averli presi per il naso: né sull’affaire monegasco, né sui ricchi contratti Rai della famiglia Tulliani. Come dimostrano i sondaggi e l’incredibile quantità di messaggi arrivati al Giornale, sono fatti sui quali i cittadini non sono disposti a mettere una pietra sopra. E noi non archiviamo.

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