Ci sono vari modi di analizzare il significato del viaggio del presidente Berlusconi in Israele. Lo si può descrivere come viaggio senza precedenti se si considera il numero di ministri che il premier si è portato appresso ovviamente per tradurre la retorica e l’immagine in fatti concreti. Si può pensare che Berlusconi - cosciente dell’enorme cassa di risonanza rappresentata da Israele, dall’ebraismo e dal conflitto mediorientale - abbia compreso meglio di altri leader europei il valore delle ricadute politiche e psicologiche di un viaggio del genere. Si può credere che, sia a causa di considerazioni elettorali sia a causa dei cambiamenti di rapporti di forza internazionali, essere presenti e visibili su un teatro di crisi dove la tradizionale presenza degli Stati Uniti è in declino, quella europea priva di credibilità, offre all’Italia condizioni da sfruttare per lo sviluppo di un ruolo italiano, spesso vagheggiato, mai realizzato da molti governi di Roma.
C’è tuttavia qualche cosa di più, diverso dal passato e dalla condotta di altri governanti europei che si è tentati di leggere in questo viaggio.
Anzitutto c’è la rottura dichiarata di Berlusconi con la politica passata dell’Italia verso Israele. Una politica voluta ugualmente, nonostante le differenze ideologiche, dai comunisti, dai socialisti e dai democristiani che per motivi ideologici, religiosi e di interessi economici a Israele non hanno mai veramente creduto. Hanno fatto propria per abitudine mentale, per compromessi ispirati dai servizi segreti, per logica statistica (duecento e più milioni di arabi contro meno di mezza dozzina di israeliani, un miliardo e mezzo di musulmani contro tredici milioni di giudei), per interessi legati a forniture d’armi e di petrolio, per l’accettazione acritica del vittimismo palestinese e dei tentativi di delegittimazione di Israele una specie di costante politica. Una abitudine mentale che con variazioni di colore continuava a pensare in termini di un mare nostrum diventato ogni giorno più islamico meno italiano o europeo.
Per cambiare radicalmente politica verso Israele occorreva, più che coraggio, una visione nuova della realtà. Non era la continuazione logica del cambiamento di politica interna del berlusconismo nel corso dei suoi tre mandati governativi. Una visione che il premier ha tratteggiato nell’intervista data al quotidiano israeliano Haaretz di Tel Aviv, pubblicata ieri dal Giornale. In essa Berlusconi ricorda di aver sempre amato la libertà, la democrazia e per questo il coraggio e la costanza del popolo ebraico. Ma in Berlusconi, tanto come imprenditore quanto come presidente del Consiglio, ci sono due altre considerazioni.
La prima è basata sull’aritmetica. In un mondo dove la tecnologia usurpa sempre più gli spazi che furono tradizionalmente quelli della potenza economica e militare, bisogna essere ciechi per non comprendere il significato di due numeri legati al riconoscimento internazionale di brevetti: l’intero mondo arabo ne ha registrati un po’ meno di duecento; Israele un po’ meno di ottomila.
La seconda considerazione è di ordine psicologico. Berlusconi come leader della destra non ha bisogno come Fini di Israele, degli ebrei e del riconoscimento della Shoah per legittimarsi. Appare aperto, sia pure inconsciamente, a una visione meta-storica di Israele che altri leader - da Balfour a Truman passando per Nixon che filosemita non era - hanno avuto e usato a sostegno delle loro fortune politiche. Personaggi che non avevano bisogno di Lenin per sapere che l’antisemitismo è «il socialismo degli imbecilli». Ma che non si sono mai vergognati di sostenere i diritti degli ebrei.
Il comunismo, il socialismo, il jet set con tutti i loro molti ebrei questa vergogna l’hanno sempre avuta più o meno apertamente. Forse perché non credevano nella scaramanzia. Ma in un Paese come l’Italia, dove Benedetto Croce affermava che «il malocchio non c’è, ma ci credo», la storia dovrebbe far riflettere.
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