L'ora del grande salto

Dall'emergenza alla nuova normalità: il lavoro da casa non sparisce ma diventa istituzionale e "ibrido". Anche se restano irrisolti nodi come l'inserimento delle nuove leve e l'isolamento

L'ora del grande salto

Per la Pubblica amministrazione italiana il ministro Renato Brunetta lo ha detto nei giorni scorsi: basta smart working negli uffici pubblici, si tornerà a lavorare in presenza. Per la presidente della Bce Christine Lagarde il lavoro a distanza è invece «un processo irreversibile». Anche se poi le azioni non sono del tutto coerenti con le parole: la numero uno della Banca centrale europea ha deciso che dal primo ottobre i dipendenti di Francoforte dovranno tornare in ufficio almeno tre giorni alla settimana. Uno sbaglio, secondo il 61% degli impiegati dell'istituto, mentre il sindacato ha detto di non essere d'accordo, lamentando di non essere stato interpellato.

Finiti i tempi cupi dell'emergenza (o almeno di spera), il lavoro torna alla normalità, con un percorso che difficilmente invertirà la rotta per tornare al pre-pandemia. Vero è che lo smart working non può più essere impostato come è stato in questi ultimi mesi. Altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei lavoratori (si parla del 98%) non è disposta a rinunciarci e a tornare in ufficio per i classici cinque giorni la settimana. E lo stesso si può dire dei manager delle aziende che hanno visto la produttività alzarsi e i costi ridursi con il taglio di tempi morti e trasferte. Anche se la novità ci ha ridotto a un popolo in ciabatte che, tra una call e l'altra, stende lavatrici e sbriga al volo le faccende di casa, che mangia davanti allo schermo del pc e fa fatica a distinguere orario di lavoro e tempo libero. La grande trasformazione del concetto stesso di lavoro d'ufficio è comunque in corso. Accordi di settore e aziendali preparano il terreno per il grande salto verso la nuova normalità. Senza voler citare i modelli dei big di provenienza Usa(Facebook, Apple, Microsoft), gli esempi si sono moltiplicati negli ultimi tempi anche in Italia con intese che da WindTre alle Poste, passando per le Coop o Tim, puntano su flessibilità, revocabilità della scelta e rispetto di orari e disconnessione. E ancora, le banche, Leonardo, Enel, le assicurazioni hanno strutturato nuovi modelli di lavoro ibrido. Secondo il sindacato Fabi nel settore del credito la percentuale di smart worker è oggi al 50% contro oltre il 90% dell'inizio pandemia. Colossi come Unicredit hanno fissato per il lavoro remoto un tetto di 10 giorni mensili con contestuale eliminazione delle scrivanie fisse. Un altro gigante come Generali ha reso variabile il numero di giornate di lavoro agile a seconda dell'incarico ricoperto (dai due ai quattro la settimana). Mentre ci sono casi estremi come Maire Tecnimont (impiantistica) dove il principio di base è la presenza in ufficio per un giorno solo alla settimana. Il tutto avviene (almeno di solito) con la benedizione di sindacati e associazioni di settore. «Grazie allo smart working diamo un'accelerata di 10 anni al nostro modo di lavorare», dice Laura Di Raimondo, direttore generale di Assotelecomunicazioni, tra i primi settori a disegnare e sperimentare una cornice di regole per impostare la nuova normalità. «Dopo 18 mesi di prove generali, iniziamo a essere consapevoli di ciò che va corretto e di ciò che va amplificato». D'altro canto l'istituto di ricerca Bruno Leoni rileva che «molti lavori non richiedono la presenza fisica ma in questi mesi ci siamo resi conto di quanto siano importanti prossimità e confronto».

I NODI DA SCIOGLIERE

I nodi da affrontare perché il lavoro da casa funzioni davvero sono tanti. La «rivoluzione» riguarda circa 5 milioni di lavoratori e non più gli oltre 6 milioni del marzo dello scorso anno. Interessa principalmente le grandi città e ricade su circa un terzo del totale dei lavoratori dipendenti. Come potrebbero essere strutturati i nuovi luoghi di lavoro? In base al monitoraggio messo a punto dall'Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, una grande impresa su due interverrà sugli spazi fisici al termine dell'emergenza (51%), differenziandoli (29%), ampliandoli (12%) o riducendoli (10%); il 38% non prevede riprogettazioni ma cambierà le modalità d'uso; solo l'11% tornerà a lavorare come prima. Il 36% delle grandi imprese modificherà i progetti di smart working in corso e digitalizzerà i processi. Ben il 70% di chi ha un progetto di lavoro agile aumenterà le giornate in cui è possibile lavorare da remoto, passando da un solo giorno alla settimana prima della pandemia a una media di 2,7 giornate a emergenza conclusa. Il 65% coinvolgerà più persone nelle iniziative, il 42% includerà profili prima esclusi, il 17% agirà sull'orario di lavoro.

La lista delle prime sfide del lavoro post pandemia (quello che emergerà compiutamente allo scadere del decreto emergenziale) vede in agenda una serie di voci: retribuzione, orari, rischio isolamento, inserimento dei giovani, formazione. Senza tuttavia dimenticare che non ci si lancia senza paracadute ma una legge (soft) c'è già: è la legge 81 del 2017 che, scritta prima della pandemia, ha creato un testo di riferimento per affrontare l'emergenza e per regolare quel diritto alla disconnessione che non ci farà lavorare non stop. Il punto di arrivo per gran parte dei lavoratori italiani sarà uno smart working non «in via eccezionale» ma flessibile e ibrido, con un po' di giorni di lavoro da casa e un po' di giorni in presenza. Un fifty-fifty potenzialmente in grado di far ritrovare il giusto equilibrio famiglia-lavoro, lasciando cadere nel dimenticatoio le carriere strutturare sulle ore di straordinari in ufficio (magari senza concludere granché) e dando la possibilità di dimostrare che si può lavorare bene (o meglio) anche senza la logica del badge collettivo tutti alla stessa ora.

GLI STIPENDI NON SI TOCCANO

Un caso, quello di Google, ha messo i brividi ai dipendenti italiani. La società ha proposto un taglio dello stipendio a chi, fra i 135mila dipendenti, è interessato a lavorare da casa. Per calcolare la decurtazione in busta paga si terrà conto del costo della vita della città in cui i vari lavoratori si trasferiranno in remoto.

In Italia non potrà accadere nulla di tutto ciò, se non per un accordo singolo tra il lavoratore e il suo datore di lavoro. «È necessario rinfrescare l'impianto dei contratti - sostiene Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio sullo smart working del Politecnico e tra gli autori della legge del 2017 - ma con accordi liberi e reversibili che non prevedono tagli, bensì riguardano il luogo, gli orari e le modalità di lavoro. A parità di stipendio. Lo smart working è un accordo per lavorare meglio, non una concessione fatta al lavoratore».

«Il caposaldo di questa rivoluzione è la contrattazione aziendale - sostiene anche Luca Pesenti, docente di sociologia all'Università Cattolica e autore, assieme a Giovanni Scansani, del libro (in uscita) Smart working reloaded - Bisognerà lavorare su un cambio di passo: dal lavoro scandito dal tempo al lavoro scandito dagli obbiettivi, smontando un po' il concetto del lavoratore dipendente che abbiamo avuto finora».

LA SOCIETÀ COMODA

Uno dei risvolti che la rivoluzione degli uffici comporta è quello che Pesenti chiama «la società comoda». Cioè un'organizzazione in cui la giornata si consuma quasi esclusivamente all'interno della casa. «Il rischio - spiega - è quello di trasformare il lavoro in un puro dato produttivo che aumenta l'isolamento sociale, l'individualismo e lo scollamento dal resto del mondo». Le nuove impostazioni dovranno quindi tener conto anche di questi aspetti: a lungo andare, si potrebbero creare problemi non solo alle singole persone ma anche ai loro datori di lavoro. «Seppur inefficiente ai fini del lavoro fine a se stesso, un po' di relazione sociale serve - sostiene Corso - ed è utile a mantenere l'identità aziendale».

Per evitare l'effetto «dipendenti divanati», anche gli uffici verranno ripensati: meno scrivanie ma più spazi per le riunioni e per il lavoro collettivo nei giorni di presenza, ambienti che stimolino l'aggregazione e contribuiscano a mantenere intatto lo spirito di squadra.

LO STAGE IN CAMERETTA

Uno dei punti critici dello smart working riguarda l'inserimento dei giovani. Che, da un giorno all'altro, si trovano a iniziare gli stage in azienda stando in cameretta, dallo stesso pc su cui hanno scritto la tesi di laurea solo qualche settimana prima. «Le differenze di approccio al lavoro rispetto a prima sono molte - spiega Corso -. Nel pre-pandemia una persona si inseriva in ufficio 'per osmosi', guardando e imparando dai colleghi più avviati. Questo metodo però sta per tramontare. Ci sarà più cura della singola persona e un utilizzo ottimale degli strumenti digitali. Ma perché tutto ciò avvenga c'è una discriminante: un buon management preparato e attento». Fondamentale, secondo Laura Di Raimondo, è investire sulla formazione. «Prima del 2020 le giornate di studio si attestavano su una media di 5-6, nel 2021 sono salite a nove. E così si continuerà anche nei prossimi anni».

La rivoluzione digitale può anche creare nuovi profili professionali che prima erano inesistenti: fondamentale, ad esempio, sarà il coordinatore degli smart worker, una sorta di «capo ufficio» di nuova generazione incaricato di programmare la formazione e le attività di chi lavora da casa.

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