Il socialismo degli anni ’80 farebbe comodo a questo Pd

Da qualche tempo Francesco Rutelli ama dichiarare che il socialismo è morto, e di recente, gli ha fatto eco Walter Veltroni che, con maggior garbo, ha detto che il socialismo ha grandi meriti storici ma ora occorrono soluzioni più innovative.
Sono dichiarazioni stupefacenti sulla bocca di due dei maggiori protagonisti di un partito, il Pd, più della metà del quale ha ancora le staffe nell’Internazionale socialista. Probabilmente Rutelli si riferisce a un socialismo che era già morto nei primi anni Ottanta quando, conquistato il welfare state, languiva non sapendo indicare altre mete. Quanto a Veltroni, che ama spacciarsi per un uomo nuovo ma è stato segretario degli arrabbiati berlingueriani della Fgci, direttore dell’Unità al tempo di Tangentopoli, segretario del Pds prima di abbandonarlo per fare il sindaco di Roma, vorrei dirgli che il suo garbo è fin troppo diplomatico perché il socialismo che lui conosce meglio, il socialismo reale di stampo sovietico, quello sì è morto e sepolto, cancellato dai libri e rimosso dalla memoria.
Il socialismo moderno ha una storia importante, che comincia con le intuizioni di Craxi, e che negli anni ’80 si propaga in Portogallo, Grecia, Spagna e si allarga ancora con la Gran Bretagna, anche se l’evoluzione del laburismo britannico ha avuto altre influenze oltre quella italiana. Lo stesso Veltroni, nel suo discorso programmatico di Torino, non ha fatto altro che riprodurre, estendendoli da ogni parte, i canoni del nuovo, moderno socialismo liberale enunciati da Craxi tanti anni fa. Peccato che Veltroni, fa finta di non accorgersi che nel Dna dei comunisti non c’è una goccia di socialismo liberale; i riformisti craxiani sono libertari, i comunisti statalisti, cioè possessori di tutti i diritti del cittadino, la qual cosa si è dimostrata ampiamente con i provvedimenti del governo Prodi (Finanziaria, decreti Bersani).
Craxi non era un teorico e non ha elaborato teorie. Era un politico, con molto acume e una sensibilità quasi da rabdomante per capire le cose del mondo. Intuì due concetti fondamentali: che il progresso sociale aveva ormai nome maggiore: libertà; che la politica del tassa e spendi era finita: prima la produzione della ricchezza, poi la distribuzione. Quando fu al governo tagliò via la scala mobile che alimentava l’inflazione; investì risorse per rimettere in moto il processo produttivo; tenne ferma la tassazione al 33 per cento; e vinse la partita divenendo ambasciatore in tutto il mondo di un’Italia che produceva molto e bene, con abilissimo valore aggiunto.
Se si vuole spacciare per socialismo moderno l’equità di cui Prodi si riempie continuamente la bocca, allora possiamo ben dire che il socialismo è morto e augurarci che presto si cancelli quel che ne rimane. Chi saprebbe spiegare l’utilità sociale della dispersione del primo «tesoretto», dei dieci miliardi (il calcolo è di Nicola Rossi) per passare dallo scalone di Maroni agli scalini di Prodi o i milioni di euro spesi per il faraonico rinnovo del contratto dei pubblici dipendenti? Sono tutti soldi a perdere, che hanno avuto come sola conseguenza l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità colpendo sia chi aveva beneficiato delle mance, sia chi non aveva avuto alcun vantaggio.
Sono di questi giorni le polemiche sulla collocazione del liberalismo suscitate dal libro di Alesina e Giavazzi. A molti non è piaciuto classificare di sinistra il liberalismo sebbene il libro dei due economisti contenga ragionamenti di forte persuasione.

Credo che se Alesina e Giavazzi avessero rinunciato alla provocazione e avessero parlato di liberalismo sociale, invertendo i termini del socialismo liberale di Craxi, molte polemiche non ci sarebbero state e avremmo acquisito una nozione di cui, sono certa, si parlerà molto in futuro.
*Parlamentare di Forza Italia

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