Gender e la guerra delle parole: così la famiglia finisce sotto attacco

La sentenza del tribunale di Roma che cancella dai registri "madre" e "padre" è solo l'ultimo capitolo di un conflitto che la sinistra porta avanti delegittimare la famiglia naturale. Un affondo che richiede una strategia di difesa

Gender e la guerra delle parole: così la famiglia finisce sotto attacco

Non ha parole. Così ha dichiarato Matteo Salvini, in un tweet a commento di un’ordinanza del Tribunale di Roma che ha ribaltato una sua decisione di quasi quattro anni fa, quando era ministro dell’interno, riguardo all’utilizzo delle parole “padre” e “madre” sulle carte di identità elettroniche per i figli minorenni.

Eppure, nonostante la costernazione del leader leghista, è proprio sulle parole che finora è stata giocata questa battaglia. La posta in palio è più importante di quanto sembri. Si tratta infatti di difendere la realtà, e la natura delle fondamentali relazioni umane, da chi le vorrebbe sostituire con il mondo virtuale dei desideri individuali. Salvini di certo lo sa, e ora si tratta di vedere se il nuovo governo, nel quale il segretario della Lega non è più prima donna (a proposito di parole…), sarà all’altezza della situazione.

I fatti sono questi: il Tribunale di Roma, investito della questione dopo che il Tar aveva declinato la propria competenza, ha infine accolto il ricorso di due combattive donne italiane. Queste ultime insistevano per poter ottenere la carta d’identità della bambina di una delle due – nata con la fecondazione artificiale – senza dover sottostare alle distinte diciture “padre” e “madre”.

Il bersaglio dichiarato delle due ricorrenti, e del mondo che chiaramente sta alle loro spalle, era un decreto del 31 gennaio 2019, mediante il quale l’allora ministro dell’interno Matteo Salvini aveva accettato la battaglia delle parole. Era stato lui, infatti, con un’autonoma iniziativa, a imporre che nei software dell’anagrafe, al posto dei neutri “genitore 1” e “genitore 2”, venissero ripristinati i termini padre e madre. E lo aveva fatto con determinazione. “Utero in affitto e orrori simili assolutamente no. Difenderemo la famiglia naturale fondata sull’unione tra un uomo e una donna”, aveva dichiarato all’epoca, in una intervista alla Bussola Quotidiana, rivista cattolica on line.

Il tutto per l’ovvia indignazione della sinistra arcobaleno. Ora, con il consueto piglio della magistratura che vuole dettare legge alla politica, il tribunale romano ha ordinato al ministero di modificare il software che presiede al rilascio dei documenti elettronici. Tutto questo sulla base di normative internazionali, in particolare la Carta Europea dei Diritti dell’uomo, che imporrebbero di non discriminare chi non si rassegna ai ruoli di genere nella famiglia.

È evidente, leggendo l’ordinanza, che essa è ideologicamente orientata, e non priva di una certa retorica orientata in senso contrario alle ragioni della famiglia naturale. Il tutto sempre giocando sul cambiamento di significato delle parole. In essa si leggono ragionamenti molto evolutivi, con buona pace della nostra Costituzione, del tipo: “il matrimonio non è il fondamento della famiglia, se non ordinario o prevalente, non certo una sua precondizione… ciò è dimostrato dalle norme che hanno riconosciuto ‘nuovi’ diritti nel perimetro logico-giuridico e sociale del concetto di famiglia alle coppie diversamente formate...

Ieri, dopo il tweet costernato di Matteo Salvini, Palazzo Chigi ha subito osservato che l'ordinanza in esame non è di questi giorni, bensì risale al 9 settembre scorso. Essa non era stata impugnata dal ministero dell'Interno, che all’epoca non era ancora occupato dall’ex capo di gabinetto di Salvini. Pare dunque di capire che l’attuale esecutivo non avrebbe nemmeno avuto il tempo materiale di opporsi al provvedimento.

Così, i “giornaloni” on line – per usare un’altra parola cara al leader della Lega – si sono buttati sulla notizia dell’ordinanza ormai diventata definitiva. Probabilmente sono stati imbeccati dal mondo Lgbt, che ha alacremente supportato nella battaglia giudiziaria le due cittadine ricorrenti. Troppo ghiotta l’occasione di abbattere almeno sul piano della comunicazione un decreto simbolico, ma troppo provocatorio per la sinistra dei nuovi diritti. Oggi questa sembra avere consumato fredda la sua vendetta, e ha cantato vittoria dalle pagine dei medesimi giornaloni. Quindi, vai con i peana per la coraggiosa Sonia, che secondo La Stampa è la madre “biologica” (come se, sempre a proposito di parole, ce ne potesse essere un’altra) di una bambina concepita in Grecia con la fecondazione artificiale.

Sonia è l’eroina di giornata che non ha voluto sottostare all’imposizione di Salvini, e non si è rassegnata al fatto che la sua “compagna” (anche qui, attenzione alle parole), madre adottiva della bambina sulla base di un altro provvedimento giudiziario, non potesse figurare assieme a lei come l’altra madre di sua figlia. Pertanto, ha subito ingaggiato la battaglia di principio - con l’aiuto dei legali delle reti arcobaleno - per picconare il decreto salviniano.

La vicenda ha portato Palazzo Chigi a intervenire con la promessa che la situazione verrà rivalutata, visto che potrebbe portare “problemi di identificazione”. Chissà, quindi, se il nuovo governo accetterà la sfida del tribunale capitolino, ovvero imporrà al ministro Piantedosi di abbandonare il campo.

Ma a parte le strategie politiche, e i nuovi equilibri governativi, vale la pena di insistere sulla guerra delle parole? Di certo, riguardo a essa non si arrenderà il mondo lgbt, nella sua lotta contro il “patriarcato” e tutto ciò che richiama le persone alla propria identità non asessuata, e dunque non slegata dalla realtà. Nemmeno si arrenderanno i fautori dei poteri finanziari transnazionali. Cambiare le parole con le quali le persone descrivono sé stesse e le loro relazioni, infatti, è la chiave da sempre utilizzata dal mondo del politicamente corretto. L’obiettivo è quello di regnare sul metaverso dei desideri senza limite, dove non ci sono più persone ma solo individui slegati da ogni vincolo, e quindi pienamente disponibili per le esigenze della produzione e del consumo.

Lo aveva ben compreso la Chiesa cattolica, ormai vent’anni fa. Fu infatti nel dicembre del 2002 che venne presentato, a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia – già presieduto dal compianto Cardinale Carlo Caffarra – un libro intitolato “Lexicon”. Si trattava di un ponderoso tomo di oltre 800 pagine, che prendeva come sottotitolo “termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche”. Questo volume, oggi quasi dimenticato, era stato per l’appunto denominato “Lexicon”, cioè lessico, in quanto partiva dal presupposto che gli attacchi del femminismo di genere – e non solo – riguardo alla natura sessuata della persona umana venissero praticati soprattutto attraverso la distorsione del linguaggio.

Un piano ben organizzato a livello internazionale, fin da quando Judith Butler, nel 1990 pubblicò l’opera intitolata “Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità”. Quel libro segnò un punto di svolta del femminismo internazionale ed è divenuto un classico. Ancora oggi esso è a fondamento di tutte le battaglie, non solo lgbt, contro l’idea stessa dell’esistenza della famiglia naturale e della invariabilità del sesso biologico.

L’idea centrale della Butler - che si cita testualmente – era infatti che “il genere è una costruzione culturale, non è il risultato causale del sesso. Concependo il genere come una costruzione culturale indipendente dal sesso, risulterà libero da vincoli. Di conseguenza, uomo e maschile potranno essere riferiti sia a un corpo femminile, sia a uno maschile; donna e femminile, sia a un corpo maschile, sia a uno femminile”.

Dal 1990 ne è passata di acqua sotto i ponti, ma iniziative di principio – come quella che ha appena trovato sponda al Tribunale di Roma – ci confermano che la battaglia dei nemici della famiglia naturale ancora transita per la decostruzione del linguaggio. Su questo, in definitiva, si basa l’intera teoria del gender, che per usare le parole del Cardinale Caffarra è stato definito come "una cataratta che impedisce di vedere lo splendore della differenza sessuale".

Il nuovo esecutivo potrebbe essere intenzionato a non spingere troppo l’acceleratore su questi temi. Eppure, sembra avere comunque ben presente l’importanza delle parole, a livello di principio. Alla nascita del primo governo Meloni c’è stato infatti il cambio di denominazione di un ministero senza portafoglio, che è ritornato a essere “per la natalità e la famiglia”, ed è stato affidato a Eugenia Roccella, in quota a Fratelli d’Italia nonché accreditata di essere un’esponente del “femminismo della differenza”.

Le parole quindi contano. Tanto che, in precedenza – con una scelta di opposta natura ideologica – il ministero di cui sopra era stato intitolato a “pari opportunità e famiglia” in linea con gli orientamenti progressisti del governo Conte II. Curiosamente, nell’esecutivo ancora precedente, quando a sostenere il primo governo Conte c’era anche il partito di Salvini, il medesimo ministero, inizialmente occupato dall’attuale presidente della camera Lorenzo Fontana, si chiamava “per la famiglia e le disabilità”. Poi, non appena è passato ad Alessandra Locatelli, nel luglio 2019, i termini della denominazione si sono invertiti: “per la disabilità e la famiglia”.

In quella occasione si era visto che l’ex ministro Salvini conosce il valore della battaglia delle parole, ma la Lega su questi temi sa essere pragmatica. Chissà, dunque, fino a che punto vorranno esserlo anche il nuovo presidente del consiglio e il suo governo.

Di certo, se può essere di ispirazione, possiamo ricordare che sta per compiere esattamente vent’anni anche un documento che ha segnato una intera stagione, per i cattolici impegnati. Si tratta della “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, che fu per l’appunto emanata il 24 novembre del 2002 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, a firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, che ne era prefetto. Fu in quella nota che l’attuale papa emerito inaugurò l’espressione “valori non negoziabili”, che da allora ha segnato tutte le battaglie dei cattolici pro-life, almeno fino all’avvento del pontificato di Francesco.

In essa si leggeva che “la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona”. Per questo, si impegnavano i cattolici in politica a “dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica”.

Giorgia Meloni di certo non si può sentire vincolata dalle severe parole di un documento magisteriale, oltretutto ormai passato di moda. Ma anche lei dovrebbe avere ben presente l’importanza della guerra delle parole. Di certo, già ha avuto un assaggio di come questa, partita per spodestare il padre dal suo ruolo di garante della famiglia naturale, arriva necessariamente a colpire anche le figure materne.

È di questi giorni, infatti, l’attacco – partito sempre dai soliti “giornaloni” – riguardante la scelta della premier di portare con sé la figlia al vertice del G20 di Bali. Con lei non era presente il padre di questa, che peraltro, va detto, ha iniziato a praticare con una certa eleganza il suo ruolo nei confronti della prima donna nominata in Italia come capo di governo.

La Meloni ha trovato il tempo di reagire ai rilievi delle femministe “di genere” con un post sui social, nel quale le ha opportunamente invitate a farsi gli affari loro, e a non interferire con come ha scelto di crescere sua

figlia. Ma questo dovrebbe essere bastato a ricordare a lei, e a noi tutti, che la guerra delle parole non si fermerà. Come ha spodestato il padre ormai da decenni, essa non avrà rispetto né per le madri né per i loro figli.

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