Il grande bluff della solitudine nell’era del "Secolo Antisociale"

Un importante distinguo va fatto per separare la condizione virtuosa della solitudine (frutto del libero arbitrio) dal suo nefasto alter ego (figlio di costrizioni esterne alla nostra volontà)

Il grande bluff della solitudine nell’era del "Secolo Antisociale"
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«Se sei triste quando sei solo, probabilmente sei in cattiva compagnia». Ma, visto che pochi hanno la fortuna di serbare al proprio interno un amico come Jean-Paul Sartre, bisogna accontentarsi; e fare spallucce a quanti condannano tout court la solitudine del «Secolo Anti-Sociale» bypassato ormai da «Secolo Pro-Social» della Rete. La domanda «meglio il rapporto in carne ed ossa o quello mediato dalla tecnologia?» ormai non ha più senso, trovando risposta nello spartiacque generazionale. Però un importante distinguo va fatto per separare la condizione virtuosa della solitudine (frutto del libero arbitrio) dal suo nefasto alter ego (figlio di costrizioni esterne alla nostra volontà): nel primo caso nessuno ha il diritto di sindacare la scelta autonoma di stare, più o meno esclusivamente, con noi stessi; nel secondo scenario, invece, la società ha il dovere di porsi a fianco e a sostegno di chi vive forzatamente una condizione di solitudine. Al contrario, quando si parla di «dinamica isolazionista» si tende a fare di tutta l’erba un fascio, col rischio di fare confusione.

Proprio ciò che è accaduto a Derek Thompson, autore su «The Atlantic» di un recente articolo (ripreso dai maggiori media) che fa il punto su ragioni, origini ed effetti dell’«Anti-Social Century», trascinando sul banco degli imputati «solo» lei: la solitudine, appunto. Il verdetto non ammette appello, «l’estinzione delle relazioni interpersonali sono la più grave piaga del nostro tempo». E non c’è «elogio della solitudine» che tenga, con buona pace di Fabrizio De Andrè che nel ’96 con l’album «Anime Salve» ne cantò poeticamente le lodi («La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà», la sintesi concettuale di De Andrè).

Peccato che per gli esperti interpellati da Thompson la deriva di tale «filosopia autoreferienziale» non sia «deleterio unicamente per l’individuo», ma stia «influenzando i comportamenti su scala globale rendendoli più cattivi e deliranti». Insomma, se il mondo è sempre più violento è anche perché non ci riconosciamo più nell’«altro» ma piuttosto vediamo in esso un «nemico da abbattere a prescindere». Interagire «in presenza» con altri soggetti significa accettare il rischio frustante della sconfitta, ma purtroppo nel vocabolario dell'era iperconcorrenziale il verbo «perdere» non è contemplato. Allora - nel timore pragmatico di un sanguinoso faccia a faccia - meglio attaccare o difendersi «da remoto». E in questo gioco di guerra il display del telefonino o lo schermo di un pc sono perfette armature preventive.

La casa è il fortino inespugnabile, alternativo al «fuori» dove un uomo non in compagnia, una donna sola, un bambino non circondato da altri coetanei vengono scrutati con diffidenza: tessere scheggiate nel mosaico lucido dei pregiudizi. Dal Big Bang in poi il conformismo sociale fa eco alle voci del coro, chi ne è fuori va risputato nel buio spaziale.

Proprio l’altro giorno abbiamo ricevuto una mail della psicologa Rita Celli che ci mette in guardia dalla «solitudine autoimposta e dalle sue

conseguenze», evidenziando come «l’isolamento sia una delle sfide più urgenti per il benessere individuale e collettivo». Sir Winston Churcill le avrebbe risposto: «Gli alberi solitari, se crescono, crescono forti».

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