Il sogno impossibile dell’imperatore Nerone

Alessandro Massobrio

La storia di un monumento è talvolta più emozionante di quella di un romanzo d'avventure. A chi ritenesse un poco forzata una simile affermazione, consigliamo di leggere lo svelto volumetto di Valentina Costa sulla Domus Aurea neroniana. Una autentica - come oggi si usa dire - full immersion nei cunicoli di un passato che tanto hanno ancora da rivelare, guidati passo dopo passo da una scrittura chiara e circostanziata e da una sapienza narrativa che farebbe invidia a tanti tromboni delle patrie lettere.
Al termine del lungo percorso, eccoci comunque alla presenza di uno delle più sconvolgenti invenzioni architettoniche dell'antichità classica. Simbolo oltretutto del fallimentare sogno autocratico di un despota che pretendeva, come molti rivoluzionari moderni, di trasformare il volto della realtà ad immagine e somiglianza di quanto gli suggeriva la sua visione ideologica. E questo nella completa indifferenza delle vite umane sacrificate per realizzare il proprio delirante obiettivo.
L'obiettivo di una città non soltanto concepita secondo la squadra e il compasso, nel pieno rispetto di una concezione architettonica rigorosamente geometrica, ma tutta raccolta intorno alla reggia. Che avrebbe dovuto sorgere, al di sopra delle abitazioni, come il tempio di un dio, sceso dalle stelle a governare la terra.
Questo avrebbe dovuto essere Neropolis, la nuova capitale del mondo, fortemente voluta dal giovane figlio di Agrippina, non appena recisi i vincoli che, grazie a Seneca e Burro, lo tenevano ancorato alla realtà. Nerone (37-68 d.C.), in altre parole, riteneva Roma troppo piccola per contenere il suo genio, troppo piccoli soprattutto gli antichi palazzi sul Palatino, che pure già avevano ospitato Tiberio e Caligola.
Che questa fosse l'idea originale lo stanno a dimostrare le rovine della Domus Transitoria, il palazzo alla cui edificazione diede inizio nell'attesa che un evento straordinario non gli schiudesse le prospettive di una totale trasformazione urbanistica dell'urbe. E questo evento fu, senza dubbio, il grande incendio del 64. Il mare di fuoco che avrebbe azzerato interi quartieri, dando così via libera a quella Nova Urbs, a quella nuova città, che sino allora era esistita soltanto nei luoghi più inaccessibili della mente del sovrano.
Che Nerone contemplasse le fiamme, titillando le corde della lira come un nuovo Omero e che poi scaricasse sui cristiani la responsabilità del crimine, queste sono ipotesi attendibili ma non del tutto comprovate. Di sicuro, anzi, di solida consistenza, innanzi ai nostri sguardi, si leva soltanto la Domus Aurea, questo sontuosissimo palazzo - quasi una città nella città, si parla di 80 ettari di terreno - che aveva il suo centro nel padiglione del Colle Oppio e che doveva rappresentare il luogo degli incanti e dei sogni proibiti di un imperatore troppo innamorato del cielo per poter pensare di deporre la suola dei suoi calzari sulla vile terra.
Il padiglione, con la sua struttura ottagonale, la cupola in cemento armato, la meravigliosa collezione di statue greche - tra cui il celebre Galata morente, il Laocoonte, le immagini di dei e dee, generate dallo scalpello di Lisippo e Prassitele - doveva costituire, nell'ala sinistra, il cuore dell'intero edificio. Le cui pareti, spesso ricoperte di lamine d'oro, presentavano come decori quei particolarissimi viluppi di animali, uomini e forme vegetali, che i secoli successivi avrebbero poi chiamato i «grotteschi».
Ancora incompleta alla morte di Nerone, la Domus Aurea, completata dal suo successore Otone, sarebbe poi stata smantellata quasi totalmente dai Flavi. Sovrani borghesi e dunque timorosi che l'opinione pubblica bollasse a fuoco quella smania di grandezza che invece non aveva spaventato il folle piromane che li aveva preceduti sul trono. L'immenso palazzo, dunque, che avrebbe dovuto sopravvivere ai secoli - autentico simbolo della «fralezza delle umane voglie» - si dissolse nel giro di pochi decenni.
Non però il padiglione o comunque non del tutto. Interrata, nascosta sotto zolle di terra ed alberi secolari, le cui radici ancora attualmente compromettono fortemente la conservazione del sito, la meravigliosa sala ottagonale, con le sue fughe di corridoi a destra e sinistra, avrebbe affrontato, quasi del tutto incolume, il lungo degrado medioevale sino a quando gli uomini della rinascenza incominciarono a rintracciarne le orme.
Nel 1506, intanto, sotto il pontificato di Giulio II, torna a riveder le stelle il possente busto del Laocoonte, in - tutto sommato - ottimo stato di conservazione. La statua del sacerdote troiano, che disperatamente cerca di sottrarre all'abbraccio mortale del serpente le misere carni dei figli giovinetti, avrebbe avuto una importanza non piccola nella successiva storia della statuaria italiana ed europea.
Dal rinascimento al barocco sino al neoclassicismo del Winckelmann, il blocco marmoreo sarebbe divenuto una sorta di termine ad quem ed a quo sulla strada di una produzione artistica sempre tesa al confronto ed allo scontro con gli antichi. Maestri e modelli, senza dubbio, ma anche detentori di una bellezza e di una ricchezza a portata di mano di chiunque avesse inteso far proprie.
Inizia così la progressiva opera di smantellamento e sottrazione dei tesori della Domus Aurea. Basta una fiaccola, un corpo agile e ben allenato, una robusta corda cinta alla vita, per penetrare nelle grotte, sotto le quali si nasconde il tesoro e riaffiorare poco dopo, portando con sé lamine d'oro, stucchi colorati, tasselli musivi.

Qualcuno neppure si accontenta e lascia sugli antichi capolavori incisi un nome ed un cognome, che spera così di eternizzare. A spese del palazzo che l'eternità avrebbe dovuto invece, secondo il sogno del suo costruttore, beffardamente sfidare.
Valentina Costa, La Domus Aurea di Nerone, Brigati, Genova 2005, pag. 118, euro 15,00.

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