Il sogno serbo

Quando il mondo si accorse di lui aveva 46 anni, in quel Kosovo che ha segnato il suo destino. Il 24 aprile del 1987 Slobodan Milosevic era un alto funzionario del Partito comunista. Stimato dalla gerarchia, ma non certo un leader. Era cupo, diffidente, enigmatico. Le immagini dell’epoca lo ritraggono titubante di fronte a una folla di serbi furiosi per le angherie subite a Pristina dalla maggioranza albanese. Slobodan era stato inviato lì per rassicurarli, per riportare la calma; ma quando fu chiamato sul palco pronunciò una frase della cui potenza non era verosimilmente consapevole. «Nessuno oserà più picchiarvi». Il tono era freddo e monotono, ma le sue parole furono accolte da un boato di approvazione. Qualcosa in quel momento cambiò. Milosevic continuò a essere cupo, diffidente ed enigmatico, ma capì che il suo Paese stava evolvendo e che poteva diventarne il leader.
Lui, con a fianco Mira, la moglie, l’amante, il consigliere; l’unica persona di cui si sia davvero fidato. Due personalità complesse e ambiziose. Lei figlia ripudiata di un alto gerarca comunista, lui di un prete ortodosso e di un’insegnante, entrambi suicidi. Quando erano al liceo lei predisse che il suo Slobo un giorno avrebbe guidato la Serbia.
In quel 1987 Milosevic capisce che quella profezia sta per realizzarsi. In pochi mesi conquista il vertice del partito, scalzando il suo mentore, Ivan Stambolic. Slobodan è un comunista tutto d’un pezzo, cresciuto alla scuola di Tito, ma nei discorsi con cui infiamma i compagni serbi, il socialismo via via scompare. Dietro le insistenti pressioni di Mira, Milosevic gioca la carta del nazionalismo. E vince. Nel 1989 revoca l’autonomia del Kosovo e della Vojvodina, nel 1990 viene eletto presidente della Serbia.
Milosevic sa come usare i media, dà fondo alla retorica, rivaluta eroi storici, come il principe Lazar, che nel 1389 si immolò di fronte agli invasori musulmani. Quando nel 1991 la Jugoslavia inizia il processo di sfaldamento sulla spinta delle rivendicazioni etniche, vede un’opportunità per realizzare quella che fino a quel momento sembrava nulla più che un’utopia: la grande Serbia.
Il 25 giugno la Croazia proclama l’indipendenza, imitata un giorno dopo dalla Slovenia. Milosevic regola dapprima i conti con Lubiana, scatenando un’offensiva che dura pochi giorni e poche vittime. Ma la Slovenia non è strategica nel disegno della grande Serbia e Slobodan le concede un'’ndipendenza di fatto con gli accordi di Brioni. Non altrettanto accomodante è l’atteggiamento nei confronti della Croazia. Qui le minoranze serbe sono numerose, qui sono diversi i territori che, secondo le aberranti logiche del neonazionalismo serbo, devono tornare sotto la piena sovranità di Belgrado. È l’inizio delle guerre che insanguineranno per otto anni i Balcani.
Primo obiettivo Vukovar, che cade dopo tre mesi di eroica resistenza; poi le milizie serbe attaccano Dubrovnik, l’antica Ragusa. Milosevic capisce che un esercito regolare non può essere coinvolto direttamente in operazioni di «pulizia etnica». Quel lavoro deve essere affidato a gruppi paramilitari: armati, finanziati e addestrati dal governo serbo, ma formalmente autonomi. È l’ora dei Mladic e dei Karadzic, che il 6 aprile 1992 assediano Sarajevo e poi le altre città di quella Bosnia Erzegovina, che pochi mesi prima si era staccata dalla Jugoslavia. Tre anni di violenze, morte e massacri. Uno su tutti, quello di Sebrenica, dove vengono uccisi ottomila uomini e bambini. Nel 1995 lancia un’altra offensiva contro la Croazia, obiettivo la Krajina e la Slavonia orientale. In tutta l’ex Jugoslavia sono ormai decine di migliaia gli sfollati. Una tragedia inimmaginabile.
Il mondo finalmente reagisce, condanna, impone sanzioni. Anche i serbi reagiscono; il patriottismo perde il suo fascino, la gente inizia a dubitare di Milosevic. È in queste ore che Slobodan rivela la sua vera indole, quella di un uomo attaccato al potere. Pur di restare in sella, accetta, inaspettatamente, trattative con Zagabria e Sarajevo. Il 21 novembre firma gli accordi di Dayton. È la pace imposta dall’America di Clinton. Non, però, la fine degli orrori. Nel 1998 si apre il fronte del Kosovo, dove gli indipendentisti si scontrano con le forze jugoslave. Belgrado invia diecimila poliziotti. La tensione sale, l’America e l’Europa temono un nuovo genocidio. A Rambouillet fallisce l’ultimo tentativo di conciliazione. Milosevic viene avvertito dagli americani di quel che lo aspetta, ma, come il principe Lazar, non cede. Nel Kosovo, simbolo della resistenza e dell’identità serba, proprio no, tanto più che l’opinione pubblica interna è con lui. Il 23 marzo iniziano i bombardamenti della Nato, dopo 78 giorni i contingenti dell’Onu entrano a Pristina. Una guerra paradossale: dopo aver massacrato impunemente per 4 anni croati e bosniaci, Milosevic viene punito non per le atrocità commesse, ma per quelle che avrebbe potuto provocare. In fondo, una guerra preventiva. Per lui l’inizio della fine.
Il 22 maggio 1999 viene incriminato per crimini contro l’umanità dal Tribunale dell’Aia.
Nell’aprile del 2000 centomila serbi dimostrano a Belgrado per chiedere nuove elezioni. Milosevic è cupo, diffidente, enigmatico, come sempre. Ma, chiuso nel suo palazzo, meno sensibile agli umori del Paese. Accetta la sfida delle urne, persuaso di vincere. Ma il 24 settembre i serbi gli preferiscono Kostunica.
L’epilogo è noto: il primo aprile 2001 viene arrestato durante uno spettacolare blitz notturno e subito incarcerato all’Aia. Suo figlio Marko scappa, sua figlia Marja viene fermata con una pistola in pugno.

La moglie resta a piede libero. Milosevic perde tutto, fuorché la stima in se stesso. Decide di difendersi da solo in aula. Respinge tutte le accuse. «Non mi spezzeranno mai, li sconfiggerò tutti». Sono le sue ultime parole.

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