"Sono le litigate in famiglia il segreto del nostro successo"

Nipote prediletta di Carla, ne ha ereditato la guida della Fondazione: Amo l'arte ma non la mondanità. Per quella ci vuole il fisico..."

"Sono le litigate in famiglia il segreto del nostro successo"

Maria Teresa Venturini Fendi è donna schiva. Vive con discrezione un cognome importante, ricevuto in dote da mamma Anna Fendi. È incurante dei circuiti della mondanità, estranea alla Roma della Grande Bellezza. E non lo ammetterà mai, forse neanche a se stessa, ma è stata la nipote prediletta di Carla Fendi che - non per nulla - a lei ha passato il testimone. Scomparsa la fondatrice (dopo lunga malattia, lo scorso giugno), è lei la nuova presidente della Fondazione Carla Fendi, creata per sostenere l'arte, il cinema, la moda, i beni e la cultura del nostro Paese. Sostiene con particolare convincimento e trasporto il Festival dei Due Mondi di Spoleto, e da quest'estate anche l'Accademia Musicale Chigiana di Siena. Carla è stata una mecenate con pochi pari: di quelle pure che non esigono niente in cambio. Aveva avuto già tutto dalla vita: successo professionale, frequentazioni invidiabili, e soprattutto un sincero rispetto. Maria Teresa incarna la terza generazione, erede delle cinque sorelle vere forze della natura che hanno costruito, come dice mamma Anna, «una storia di complicità e di grande amore, ribadito anche dalle discussioni».

Possiamo ben immaginare l'intensità degli incontri-scontri di cinque donne nonché sorelle imprenditrici...

«Erano incontri straordinari. Immaginate tante personalità forti e diverse intorno a un tavolo. Lì, a discutere in estenuanti riunioni da dove si usciva con delle decisioni. E decisioni unanimi. Ma si discuteva fino all'ultimo. Questa, a mio avviso, è stata la forza della famiglia Fendi».

Questione di Dna o di formazione? O di tutti e due?

«Era un'attitudine inculcata da nonna Adele. Diceva alle figlie che era importante confrontarsi continuamente, senza però litigare perché litigare è segno di debolezza».

Che ricordi ha di questi incontri?

«Ero una bimba ma senza volerlo partecipavo. Ero solo un'occasionale uditrice ma non scorderò mai quei confronti fortissimi».

Le Fendi sono donne combattive. È un segno distintivo di famiglia?

«Ognuna ha le sue durezze e fragilità».

Lei?

«Io non saprei come definirmi. Mi sento dura e fragile insieme. Ma penso che in fondo le mie fragilità siano ciò che fa sì che poi diventi forte, il desiderio di superarle è tale che la fragilità, alla fine, diventa uno sprone a crescere. Ecco, quello che mi riconosco è l'essere intuitiva».

Come zia Carla.

«Era estremamente intuitiva. Anche lei con due anime, poteva essere severissima e tenera insieme. Una personalità molto complessa, con modi e aspetti che l'hanno resa una donna amata e rispettata, anche dagli artisti. Che si è sempre preoccupata di tutelare».

E qui esce l'anima della mecenate vera.

«Sì, non si limitava a seguire l'evento artistico in sé. Andava oltre la messa in scena, si prendeva cura degli artisti, seguendone gli sviluppi, proteggendoli, si sentiva responsabile. Era una donna a 360 gradi, capiva perfettamente le implicazioni di ogni cosa».

L'aspetto che colpiva di più della sua persona?

«La passione per il bello: questo innanzi tutto. Capiva se c'era una novità, intercettava ogni vibrazione, aveva intuizioni molto profonde. Si tende a parlar bene delle persone scomparse. Io ne parlo bene perché lei veramente era così. Capì più delle altre quattro sorelle cosa voglia dire promuovere il bello».

Qualcuno direbbe che è il ritratto di una visionaria.

«Organizzò il suo primo evento nel 1976, lavorava ancora nell'azienda di famiglia. Con Franco Maria Ricci portò Borges a Roma. Zia sapeva che Borges voleva tornare in Italia, e così ne organizzò il rientro e lo fece nell'atelier Fendi dove, del resto, aveva ospitato il primo bookshop di Carlo Maria Ricci. Questo dimostra quanto fosse ricettiva. Ora in tanti abbinano la moda all'arte, creano eventi trasversali. Ma all'epoca queste operazioni erano inconsuete. E lo fece solo perché era curiosa, voleva conoscere, sapere. Il resto era una conseguenza».

Cosa le disse quando le affidò l'incarico?

«Non c'è stato nulla di ufficiale. Anzi, a dire il vero, non ne parlammo neppure. Potevo intuirlo, essendo anche la vice presidente della Fondazione. Ma il nostro rapporto era fatto di confronti su tanti temi. Parlavamo di tutto, non necessariamente della Fondazione. Amavamo ispirarci vicendevolmente. Naturalmente ho molto apprezzato che abbia riposto fiducia in me».

C'erano molte cose che vi rendevano vicine, e probabilmente per questo - nello stuolo dei nipoti - zia Carla ha scelto lei.

«Nel fare questa scelta è stata determinata ma, come dicevo, non ne abbiamo mai parlato. Me lo aveva fatto capire, ma non mi ha mai detto, dovrai fare questo, quell'altro, vorrei che tu.... Niente di tutto questo».

Lei è nota per la sua passione per l'arte, e per un'invidiabile collezione.

«Però attenzione: non amo il vocabolo collezionista. Sa di accumulo».

Meglio, semplicemente, amante dell'arte?

«Più che amante dell'arte, sono amante di alcune cose, di una certa arte. Non mi piace, per esempio, l'arte troppo provocatoria o quella decorativa, le considero un po' esagerate. Preferisco l'arte moderna alla contemporanea. Trovo che gli anni Cinquanta e Sessanta italiani siano stati molto originali, penso a Manzoni, Burri, Fontana».

Forme d'arte predilette?

«Mi piacciono tutte le discipline. Tanto la parola, la letteratura».

Dacia Maraini era al suo matrimonio, 20 anni fa, con l'artista israeliano Shay Frisch.

«Sono appassionata di narrativa del primo Novecento. Ma guardi, tornando al discorso dell'arte, vorrei sottolineare una cosa. Oggi si abusa del termine. Ormai potrebbe essere considerato un esempio d'arte anche un supermercato. E se proprio dovessi indicare l'arte che mi piace ora direi la tecnologia».

La tecnologia?

«Sì, più che l'artista contemporaneo, a interessarmi è lo strumento che usa, la tecnologia appunto, il mondo nuovo che in essa si esprime».

È cresciuta con mamma imprenditrice, in un'Italia dove le donne manager erano una rarità.

«Infatti ero l'unica bambina ad avere una mamma che lavorava. L'unica che, anziché avere mamma che t'aspetta all'uscita di scuola, andava da lei, nell'atelier. Ero io a raggiungerla. Sono cresciuta così».

Poi che studi ha fatto?

«Ho studiato sempre all'estero, prima a Losanna, quindi negli Usa e Inghilterra. Materie umanistiche. Ho studiato tanto e in tanti Paesi, anche se non ho formalmente una laurea.

Ora sta a Roma?

«Sì, anche se viaggio moltissimo e comunque, proprio su spinta di zia Carla, per un certo periodo ho abitato a New York, nella città effervescente della fine anni Settanta».

Quindi ha vissuto in prima persona l'affermazione delle Fendissime nella Grande Mela.

«Anni brillanti, di cui ho un bellissimo ricordo».

Gli anni di Karl Lagerfeld. Che rapporto aveva con lui?

«Karl Lagerfeld è stata una figura molto formativa per noi tutte, me compresa. Avevo nove anni quando l'ho conosciuto. La sua è stata una grande scuola. Un training senza pari: un'accademia che ho frequentato senza bisogno di iscrizione. E così sono cresciuta, tra personaggi di grande qualità artistica e che mi hanno dato un grande nutrimento».

Ci parli di chi frequentava la vostra casa.

«Il premio Oscar Piero Tosi, costumista di Visconti, per esempio. Umberto Tirelli, proprietario dell'omonima e prestigiosa sartoria teatrale, Milena Canonero. Fin da bambina casa era frequentata da artisti come Mauro Bolognini, Romolo Valli, lo scenografo De Lullo, Franco Zeffirelli, Valeria Moriconi, Catherine Deneuve, Marcello Mastroianni, Federico Fellini. Tutti personaggi con cui Fendi ha anche collaborato professionalmente».

A proposito. Lei ha un passato da costumista.

«Costumista di teatro, opera e cinema. Ma fu soprattutto l'opera a conquistarmi».

E in particolare?

«Gli allestimenti di Mozart».

A proposito di musica. La Fondazione Carla Fendi ha sempre sostenuto il festival di Spoleto. Ora si aggiunge anche l'Accademia Chigiana, scuola d'eccellenza dove sono venuti a perfezionarsi i più grandi musicisti del mondo, da Pollini a Barenboim.

«Sì, è l'ultima donazione di zia Carla, che sentiva in modo particolare la vicinanza alla musica. È stata lei a voler assegnare tre borse di studio a giovani talenti».

E comunque continuerete a sostenere anche Spoleto?

«Sto prendendo in mano tutte le cose a cui lei teneva. L'intento della Fondazione è proseguire il percorso di Carla. La musica era e sarà un punto fondamentale. Mia zia è scomparsa a giugno. Da allora è stato un precipitare di cose e solo adesso mi rendo conto che è accaduto. A queste cose non ci si abitua, ma la vita è più forte. Durante la fase della malattia, zia riusciva a riprendersi anche nei momenti peggiori. Sembrava invincibile, quindi la sua scomparsa è stata un qualcosa di inaspettato».

L'ultimo evento promosso a Spoleto, come i precedenti a firma di Quirino Conti, ha avuto per soggetti Genesi e Apocalisse. Un tema premonitore.

«Lei ha voluto fortemente questo progetto. Non scorderò mai il giorno in cui, in un momento in cui eravamo sole, mi disse: Vedrai, ti piacerà così tanto. Sarà veramente speciale. Me lo disse guardandomi con quell'aria che serba una sorpresa. Un'aria severa, rigorosa che comunica autorevolezza, ma dove traspariva un sorriso fanciullino, credo che questo fosse effetto della sua incredibile curiosità. Curiosità su tante cose. Era uno spirito fresco, vivace».

Poi il passaggio, anche per lei, nell'azienda di famiglia.

«Sì, nell'ufficio immagine, al fianco di Carla. Quindi al di là dei legami di sangue, posso dire di averla conosciuta sul campo, e di aver apprezzato il metodo Carla».

In che cosa consisteva?

«Carla seguiva in profondità e totalmente qualunque progetto intraprendesse. Dall'idea iniziale e quindi dal foglio bianco alla sua realizzazione fino alla comunicazione finale. Il suo ordine era proverbiale, quasi matematico. Ogni cosa doveva trovare il suo posto. E questo ordine che esigeva da se stessa, lo pretendeva anche dagli altri, ritenendo fosse la base per intraprendere ogni lavoro».

Un senso dell'ordine che è in sintonia anche con lei?

«Purtroppo no. Mi fa però piacere ricordarlo. Una delle ultime volte che la vidi mi chiese di aiutarla a mettere a posto degli oggetti sulla scrivania e io deponevo consapevolmente gli oggetti in modo errato. Una sorta di partita a scacchi che mi permetteva di giocare con lei e di riconoscerne il carattere attraverso i moti dei suoi sguardi».

La vostra famiglia è numerosa. Ha mai fatto i conti di quanti siete?

«Non ho mai contato, ma devo dire: tanti, proprio tanti».

Vi capita di incontrarvi, almeno a piccoli gruppi?

«Era proprio zia Carla a creare momenti di incontro. Amava molto queste riunioni, e sempre di più cercava di aprire se stessa, la casa, per far sì che tutti si frequentassero. Invitava nipoti, pronipoti, anche solo per una pizza dietro l'angolo. Amava questi grandi tavolate, le piaceva vederci conversare. Aveva un forte senso della famiglia, in questo era molto italiana».

Non la vediamo mai ad eventi mondani, la Roma godereccia non le piace?

«Non amo la mondanità e non reggo proprio fisicamente i ritmi che richiede. Sono una che ama andare a letto presto. Devo dire che nessuna di noi tre sorelle (Ilaria e Silvia, ndr) sia attratta da questo tipo di vita».

Ha due gemelli. Si intuisce il percorso che potrebbero intraprendere?

«È presto per dirlo, hanno solo 12 anni, vedremo».

Non deve essere facile per un maschio entrare nel gineceo Fendi...

«Ah, questo deve chiederlo a loro. Con mio marito vale una regola: ognuno fa il proprio lavoro, senza interferenze».

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