«Sono un re del jazz ma sogno la primavera di Grieg»

Oggi molti dicono che il jazz non è morto (c'è chi sostiene il contrario) ma ha cambiato casa. Significa che il luogo della produzione di eccellenza non sono più gli Stati Uniti d'America ma l'Europa. È un'opinione tanto discutibile quanto legittima, però i jazzofili tradizionalisti non ne vogliono sapere: i grandi del jazz sono gli americani, punto e basta. L'idea è talmente radicata che due musicisti di altissimo livello e di fama collaudata come il chitarrista John McLaughlin e il contrabbassista Dave Holland, tutt'e due inglesi, sono ritenuti talvolta americani perché si sono trasferiti negli States quasi quarant'anni fa e perché i loro nomi sono «compatibili». Lo stesso accade al sassofonista John Surman, sebbene non abbia mai lasciato la nativa Inghilterra. C'è però un maestro, oggi forse il migliore di tutti, europeo senza ombra di dubbio: è il sassofonista, compositore e direttore d'orchestra norvegese Jan Garbàrek, che dopo lunga assenza sta per tornare a Milano in quartetto con Rainer Bruninghaus pianoforte e tastiere, Yuri Daniel contrabbasso e Julio Barreto percussioni per il programma d Milano Jazzin' Festival. Il concerto ha luogo venerdì 17 alle 21 all'Arena Civica. Il quartetto di Garbàrek è collaudato da centinaia di concerti: soltanto per questo mese il percussionista Trilok Gurtu, indisponibile, è ben sostituito da Barreto. La certezza di poter assistere a un avvenimento d'eccezione sollecita nel pubblico una vivissima attesa.
Si dice che Garbàrek da bambino avrebbe voluto suonare la batteria perché già manifestava una grande disposizione per la musica; ma che il desiderio gli sia stato impedito dalle dimensioni ridotte dell'appartamento dei genitori con i quali viveva a Mysen, il paesino collinare a sud di Oslo dov'era nato nel 1947. Il maestro, che parla volentieri e con molta gentilezza, su questo argomento preferisce sorvolare: vuole che rimanga una piccola leggenda. Perciò parliamo d'altro.
C'è una domanda d'obbligo. Quando realizzerà il prossimo disco a suo nome? L'ultimo, «In Praise of Dreams» in trio con Kim Kashkashian viola e Manu Katché batteria, risale al 2004. Cinque anni di silenzio sono tanti.
«Ricordo che questa domanda lei me l'ha già fatta due anni fa. Adesso sono contento di poterle rispondere che nel prossimo settembre/ottobre sarà nei negozi 'Dresden in Concert' per Ecm. È un cd doppio inciso dal vivo, con una bella copertina rossa. È la prima volta che faccio un disco live. Suono con lo stesso quartetto di Milano, però c'è Manu Katché alla batteria».
Parliamo anche del suo passato che i giovani non conoscono come dovrebbero. Quali sono, secondo lei, le svolte fondamentali della sua carriera?
«Questa non me l'aspettavo. Così, di botto, me ne vengono in mente tre, vuol dire che sono quelle buone. La prima è l'incontro a Stoccolma con il direttore d'orchestra George Russell. Era il 1965: io avevo già adottato il sax tenore dopo aver ascoltato mille volte "Countdown" di John Coltrane. Russell mi apprezzò assai e mi invitò a suonare nella sua orchestra. Si può immaginare la mia gioia quasi incredula. Avevo diciott'anni, ero vissuto fino allora alla periferia dell'impero e un maestro di quello spessore mi voleva con lui... Tutto cominciò in quel momento. Poi c'è la seconda nel 1970. Il patron della Ecm Manfred Eicher mi fece firmare un contratto per incidere i miei dischi con la sua etichetta. Sono trascorsi quasi quarant'anni e mi trovo benone. Voglio aggiungere che in quel periodo ho capito che per seguire una strada mia, autonoma, dovevo ispirarmi anche alla musica della mia terra, specialmente a Edvard Grieg, e rifiutare la qualifica di jazzista, troppo limitante».
Veniamo alla terza.


«È arrivata nel 1994, quando Eicher decise di celebrare i 25 anni della Ecm con un album particolare, nel quale i miei sassofoni dovevano dialogare con le voci del quartetto Hilliard, specializzato nelle musiche medievali e rinascimentali. Fu un azzardo che ebbe un successo clamoroso. E in quell'occasione io perfezionai il mio suono al sax sopranino che adesso piace a tutti... proprio a tutti».

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