Da Scampia a Sanremo. Dalle strade infestate dalla droga e dall'immondizia al palco profumato dai fiori dell'Ariston. Da figlio di boss camorrista destinato alla malavita a cantastorie sul solco di Gaber. L'arrampicata sociale di Maldestro, Antonio Prestieri all'anagrafe, è una di quelle favole che ogni tanto si concretizzano nella realtà. E che meritano di essere raccontate e portate a conoscenza del grande pubblico. Come si è proposta di fare Raidue che da domani (alle 23,30) manda in onda Eroi di strada, programma dedicato a uomini e donne che ce l'hanno fatta, che con caparbietà e grande forza d'animo sono riusciti ad emergere da ambienti degradati e trovare una strada per il successo o anche solo per una vita dignitosa. Nella prima puntata, dedicata alla periferia napoletana, protagonisti sono, oltre a Maldestro, il cantautore Enzo Avitabile, l'attrice Antonia Truppo e il rapper Luché.
Ma la storia di Antonio ha un'origine che la rende ancora più favolosa delle altre. Lui è figlio di Tommaso Prestieri, capoclan di Secondigliano condannato all'ergastolo, in carcere da una decina d'anni e divenuto collaboratore di giustizia. Il boss artista che passava dall'organizzare concerti e scrivere poesie a ordinare omicidi. Dunque, la strada del figlio era segnata, se non ci fosse stata una madre d'acciaio decisa a sottrarre il bambino a una vita dedita alla delinquenza. Michela, cieca a causa del parto, sposa ragazzina di un giovane, Tommaso, che all'epoca faceva l'operaio si era ritrovata in pochi anni moglie di un malavitoso. Dopo la decisione del marito di seguire i fratelli ed entrare nei clan, si batte per divorziare e per crescere i due figli lontani dal padre. E ci vuole coraggio per allontanarsi dalla Camorra.
«Quando mia madre ha scoperto che il marito cominciava a fare tarantelle - racconta Antonio, seduto a un tavolino del famoso hotel Quisisana di Capri, invitato al Prix Italia per parlare del programma di Raidue e ancora incredulo di potersi godere una vita lussuosa - si è separata ed è rimasta sola. Per mantenersi ha cominciato a fare le pulizie nelle scale dei palazzi, ma da cieca doveva fare doppio sforzo. Poi ha studiato dattilografia e nel '92 è stata assunta in una caserma vicino alla stazione Centrale di Napoli: ironia della sorte la caserma è vicino al carcere di Poggioreale, un fatto simbolico, mio padre in prigione e lei a pochi metri in caserma». Maldestro il padre l'ha frequentato pochissimo, ha vissuto con lui solo nei suoi due primi anni di vita e visto poche altre volte. Il suo affetto lo dimostrava in modo assurdo: un anno per la festa della befana gli fece arrivare un camion pieno di giocattoli che riempivano tutta la sua camera. Quel giorno ci giocò, ma la mattina dopo quando si svegliò ne trovò solo uno o due, gli altri la madre li aveva distribuiti a tutti i bambini poveri del quartiere.
«La cosa che mi fa più rabbia - ricorda ancora - è che mio padre ha buttato al vento il suo talento: noi veniamo storicamente da una famiglia di artisti, mio nonno era impresario teatrale e produttore, era stato il primo ad aprire un locale a Napoli, il Moulin Rouge, dove hanno suonato grandi artisti, era il produttore di Nino D'Angelo. Peccato che sia morto giovane, forse se fosse vissuto i figli non si sarebbero persi».
Comunque Antonio cresce a Scampia, nel tristemente famoso quartiere di Napoli, protetto dalla madre che, per evitare che finisca in strada, gli regala un pianoforte e coltiva la sua vena artistica. «Ma non bisogna pensare che a Scampia sia tutto orribile, la maggior parte delle persone si tengono lontane dalla delinquenza, non ci sono solo le Vele ma pure le aiuole e i parchi. E poi grande solidarietà: il ricordo più vivo che ho di bambino è quel cesto che i vicini calavano da un piano all'altro per rifornire di cibo chi stava male e non poteva uscire». Però poi vedeva arrivare i carri armati dell'esercito mandati per mantenere un po' di ordine: «I bambini si spaventavano, lì bisogna mandare quaderni, matite, colori, non i carri armati».
Quando va la scuola per lui comincia un altro inferno. I compagni lo guardavano con timore e rispetto, per via del suo cognome e già se lo immaginavano futuro boss, i professori invece lo trattavano con pregiudizio, lo escludevano dalle gite, se mostrava la sua rabbia per non essere compreso la scambiavano per «educazione camorristica», lui che era cresciuto tra musica, poesie e teatro. In tanta sfortuna, alle scuole medie incontra un insegnante di ginnastica, Claudio Nasti, che gli apre il mondo. Lo tira fuori dalla classe, lo incita a scrivere, leggere, studiare musica, soprattutto «mi ha trattato come un ragazzo uguale agli altri». Poi la fuga da Scampia e il tentativo di ricostruirsi una vita in un quartiere più centrale di Napoli, le prime esperienze di recitazione nei piccoli teatri, gli spettacoli scritti contro la Camorra, «facendo nomi e cognomi». Poi ancora le prime composizioni musicali e, su invito degli amici, la partecipazione ai premi. Li vince tutti con i brani Sopra al tetto del comune e Dimmi come ti posso amare. E, infine le selezioni per il Festival di Sanremo del 2017, l'unico presentato da un'etichetta indipendente su 700 partecipanti: viene scelto, si classifica secondo tra le nuove proposte con il brano Canzone per Federica. Da lì la consacrazione nel mondo della musica d'autore. «Mia mamma a Sanremo è stata fantastica - ricorda - voleva immaginarmi mentre cantavo, così, durante le prove, si è fatta portare sul palco dell'Ariston e Carlo Conti, dolcissimo, le ha fatto toccare i microfoni, le quinte, gli strumenti. E ha fatto tutto senza dirmelo: mi ha mandato sul telefonino una foto di lei e Conti abbracciati...».
Il futuro per Maldestro è il nuovo disco che esce il 9 novembre. Ha un titolo esplicito: Mia madre odia tutti gli uomini. Per la prima volta si racconta in prima persona: «Un racconto intimo, dell'amore, dell'amicizia, dell'infanzia come li ho vissuti io. Nei miei primi brani mi guardavo sempre dall'alto, ora entro dentro me stesso». Un modo di esporsi coraggioso, quasi una terapia.
Così come il tour invernale che partirà da Sorrento inseguendo il mito del teatro canzone di Gaber. «Lui è inarrivabile, ma senza fare paragoni impossibili, è il mio modello...». Molto meglio, ovviamente, di un padre camorrista...
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