Barbara Silbe
Isolamento forzato, lungo buio invernale, lavoro bestiale per chi vive di pesca e agricoltura, sarà per tutto questo e altro ancora, fatto sta che la cucina islandese è quanto di più lontano dai cibi mediterranei ci sia in Europa. In Islanda la gente è timida, ruvida, un po strana, abituata a vivere di poche cose e tanti imprevisti. Anche le loro ricette tradizionali si distinguono per sapori poco omologati e singolarità di ingredienti. Alla base di molti piatti ci sono pesce e agnello, gli ingredienti più facilmente reperibili. Li conservano essiccati, bolliti, affumicati, sotto sale o salamoia. I palati più convenzionali possono gustare la sella di montone affumicata o la pernice di montagna (rjúpa), il salmone allaneto (gravlax) o lhalibut cucinato con patate e cipolle (plokkifisku). Altrettanto appetitosi possono essere la zuppa di montone o le patate caramellate con zucchero e margarina, mentre il miglior souvenir gastronomico è lo skyr: somiglia a uno yogurt, ma non lo è. Più denso, più cremoso. Viene fatto con latte scremato cagliato montato sempre con latte e consumato poi con abbondante panna. Lo si trova in molte varianti di gusto, alla frutta e non. Ha un alto contenuto di calcio e pochi grassi e, senza panna, poche calorie. Se poi vogliamo passare alle prelibatezze, possiamo citare per primo lhákarl, piatto di quasi tutte le feste invernali. È carne di squalo sotterrata cruda nella ghiaia per un periodo dai tre ai sei mesi, fino a quando non è putrefatta ed emana un pungente odore di ammoniaca. Poi viene appesa a essiccare e servita con un bicchiere di brennivin ghiacciato, un superalcolico scuro che ha un po la funzione di tramortire i commensali. Altre pietanze improbabili sono pulcinella di mare (un uccello che qui chiamano lundi e consumano affumicato), guance e uova di merluzzo, testicoli di montone sottaceto, testa di pecora bollita e affumicata, pochi introvabili vegetali, renne e balene. La carne di cetaceo è indicata nei menù di quasi tutti i ristoranti.
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