Non è tutto oro quel che luccica. I limiti e i rischi che si celano dietro il «decreto Bersani» sulle liberalizzazioni possono essere denunziati anche senza considerarsi dei liberisti selvaggi. Molte delle misure che il decreto contiene sono sacrosante. Quanti nelle file del centrodestra lo negassero dimostrerebbero di avere occhi soltanto per la pagliuzza negli occhi dell'avversario. Ma il «liberismo selettivo» di Bersani induce a un «legittimo sospetto» che ci auguriamo sinceramente nei prossimi giorni possa essere fugato.
La concorrenza, ancor prima che una ricetta economica è un metodo e un'opzione culturale attraverso i quali si tende a produrre, per il possibile, maggiore ricchezza oltre che a premiare i più meritevoli. L'equità sociale, di conseguenza, finisce d'essere considerata un valore assoluto a sé stante, per legarsi ai concetti di sviluppo e di merito. Ora ci chiediamo: è questa l'idea che si è affermata, seppure parzialmente, attraverso il «decreto Bersani»? Com'è stato autorevolmente notato, un primo dubbio scaturisce dal fatto che le liberalizzazioni in esso previste colpiscono solo ceti e professioni, a torto o a ragione ritenuti «privilegiati» e, per questo, vicini al centrodestra. Mentre non si prendono in considerazione macroscopiche posizioni di rendita - si pensi alla grande industria, il sindacato, il pubblico impiego - dove la cultura del mercato ha cittadinanza ancora più incerta. Il rischio è evidente. La liberalizzazione, invece che metodo per modernizzare tutta la società, potrebbe essere utilizzata solo in quanto strumento di vendetta sociale.
A pensar male, è noto, si fa peccato ma spesso s'indovina. Quel che spinge a formulare questi cattivi pensieri è, in primo luogo, il fatto che questo decreto si presenta come un lampo nel ciel sereno della sinistra, sganciato da un programma generale d'intervento economico che ne espliciti il senso. Vi è poi la sospetta conversione liberista di uomini come Oliviero Diliberto che, a quanto pare, non hanno il minimo imbarazzo a correlare i contenuti del decreto con il loro continuare a dirsi comunisti. È sospetta, soprattutto, l'introduzione della cosiddetta class action: la domanda di risarcimento dei danni fatta dai consumatori riuniti in gruppi. È questa una pratica che negli Stati Uniti ha avuto corso ed ora viene ripensata per i tanti danni che ha provocato. Attraverso di essa s'individua una nuova classe generale - dopo gli operai i consumatori - e, in spregio ai diritti dell'individuo, le si concede strumenti legali per poter intervenire contro le presunte storture di un mercato per sua natura maligno e ingiusto. Non è un caso che questa rielaborazione modernizzata del più vieto anti-capitalismo venga introdotta attraverso un provvedimento nel quale si parla di liberalizzazioni. Non vorremmo proprio che, invece del primo passo di un processo riformistico, ci si scopra al cospetto di un nuovo e più sofisticato tentativo di colpire la cultura dell'impresa e la fiducia nel mercato come strumento di regolamentazione sociale.
Veniamo ora ai problemi di metodo, che suscitano ancor più perplessità. Colpisce, innanzi tutto, leggere di un presunto asse Catricalà-Bersani. Se la memoria non ci tradisce, si era gridato allo scandalo per gli attentati che il precedente governo avrebbe commesso all'indipendenza delle Autorità di regolamentazione. Oggi invece, a parti invertite, nessuno ha nulla da ridire se Autorità che per definizione dovrebbero essere indipendenti dal governo scadono, almeno agli occhi dell'opinione pubblica, a suoi uffici studi e di consulenza. Il Parlamento, in tal modo, subisce un ulteriore affronto. E ciò risulta ancora più grave in quanto la forma prevalente del provvedimento, a quanto è dato sapere, sarà quella del decreto legge. Ci chiediamo: chi in coscienza ritiene di poter far passare un provvedimento di tale portata, impedendo un sostanziale intervento del Parlamento? Oltre che illegittimo sarebbe inopportuno. Non sussistono i motivi di «necessità e urgenza» che giustificano il ricorso al decreto legge, a meno che non si ritengano tali il fatto che, quando si cerca un taxi e si ha fretta, a volte si è costretti ad aspettare troppo! Quanti, a differenza del sottoscritto, ritengono la Costituzione «una bibbia civile» dovrebbero riflettere sulla possibilità che a un tale provvedimento sia concessa promulgazione. A meno di non ritenere che, al livello di costituzione materiale, esistano ormai due distinti procedimenti legislativi: uno, assai più rigoroso, che vale quando vince il centrodestra; l'altro, più permissivo, che si afferma assieme al centrosinistra. Si pone, inoltre, un problema con le Regioni alle quali, in vigenza del disastroso Titolo V, appartengono molte delle competenze sulle materie toccate dal provvedimento. Il decreto non è certo il miglior strumento per un confronto preventivo che eviti, almeno in parte, la caterva di ricorsi che levano certezza nella legge ai cittadini e, in particolare, agli operatori economici.
Queste critiche di metodo non valgono soltanto per una difesa formalistica della Costituzione. E nemmeno per richiamare il centrosinistra alla coerenza con quanto sostenuto in campagna referendaria non più di una settimana fa. Si avanzano perché soltanto attraverso l'iter parlamentare sarebbe possibile aprire un confronto serio sul provvedimento; capire se esso nasca da intenti riformistici o sia, nella sostanza, il primo stadio di una controriforma.
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