Dopo molti anni e qualche rilettura, il giudizio su La pelle di Curzio Malaparte non cambia: romanzo poderoso, inconfrontabile. Dove la forma diaristica del reportage e della testimonianza sono la maschera per un intreccio picaresco, in cui la scrittura si regge su tensioni, slanci verso leccesso, la digressione continua, il non finito. Detto brevemente: in Malaparte agisce una fortissima, sotterranea spinta al barocco.
La pelle è, non a caso, uno dei rari libri dove precipitano, in misura uguale, losservazione diretta della vita e la citazione letteraria, con una mistura di rara potenza espressiva. Talvolta, di brutalità. Questo perché dentro una Napoli appena liberata dai tedeschi e appena invasa dagli alleati tutto è in perenne decomposizione e, sin dalle prime pagine, tutto appare abnorme. Città infernale, che cela ed esibisce con violenza parossistica mostruosità, bizzarrie, anomalie, in grado di portare la (cosiddetta) realtà a coincidere con i momenti più oscuri, atroci, assurdi dellimmaginario. Per mettere sulla pagina il lato nero della storia, la lingua di Malaparte si serve di tutto, anche della citazione: facile trovare le tracce di Manzoni di fronte alla peste milanese, di Dante in viaggio tra i dannati. Memorie poetiche riciclate che concorrono a investire le cose dun senso duplice. E, al caso, a raddoppiare nel lettore le sensazioni di ripugnanza e disagio. Ma attenzione, Malaparte non usa il rimando colto per vezzo o per abilitarsi in quanto autore: non ne ha bisogno. Penso, piuttosto, che il rinvio alla letteratura sia lo strumento con cui raffreddare un materiale incandescente: se io lavoro sullorrore usando anche parole di altri, allora mi sono distaccato da quello che ho davanti, ho posto tra me e le mie pagine una distanza. Perché la grandezza inimitabile della scrittura di Malaparte sta nella capacità di affondare nelle cose raccontate e, immediatamente, di staccarsene. Con una visceralità assoluta e lucidissima. Con un misto esplosivo di cuore e testa, e compassione e cinismo che possono ricordare Céline. Forse, era la tensione del moralista risentito e «perso» negli eventi che agiva da freno, quando Malaparte scriveva La pelle. E, forse, proprio quella tensione è il momento che ci risulta decantato o meno motivato.
Ma se «moralista» indica colui che guarda le cose dallalto, allora quella tensione è servita allautore per non identificarsi mai con la realtà descritta, per non fare di se stesso una «personaggio» che entra nella scena e vi rimane fino allultima riga. È un io narrante che partecipa e, insieme, non partecipa alla sequela crescente di disperazioni, miserie, rovine, eros e senso di morte. Napoli diventa la metafora del dolore di unumanità vinta, invasa e invasa di nuovo: pestata e ripestata. E per questo ridotta a uno stato di degenerazione: uomini e donne e bambini (o post-uomini e donne e bambini) vicini alle bestie, caricature, figure grottesche. Come pochi libri La pelle intende rappresentare la vita in maniera globale, andando a sviscerarne i momenti duplici, quando il tragico passa nel comico e ancora nel tragico senza che nulla o nessuno arrivi mai ad acquisire una dimensione stabile, unaura di creaturale dignità: niente arresta una degenerazione interminabile. Raramente delle pagine hanno saputo produrre effetti tanto «fisici» su chi legge.
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