Vienna - Ci volevano un putto biondo madrileno e un vecchio scultore d’umanità calcistica per completare il rinascimento dello sport spagnolo. L’ingresso nel XXI secolo ha coinciso con un balenio di campioni, fatti e personaggi, il tempo ha lavorato, la scuola sportiva si è solidificata, le conquiste sono diventate come monumenti: vai in Spagna e ora ti snocciolano nomi, fatti, passioni. Si parte da Picasso e Garcia Lorca, si arriva a Fernando Torres e Fernando Alonso. Ma se il pilota di Formula 1 ha convertito gli spagnoli refrattari alla tecnologia, il Niño che ha steso la Germania ha dimostrato che questa non è più la Spagna del «I have a dream».
Fino all’altro ieri, quando parlavi con giornalisti e cultori dello sport, la prima spiegazione che veniva data alla mancanza di successo per una nazionale, fosse calcistica o altro, era questa: «Siamo un paese di club». Sottinteso: il nostro separatismo, basco, catalano, asturiano, insomma qualunque esso sia, porta a tifare per i club, a farne una bandiera, un credo, un amore più di quanto possa la nazionale. Ma ormai era rimasta solo la squadra del calcio a reggere questo assioma. La nazionale del basket ha vinto l’ultimo mondiale in Giappone ed ha fatto di Pau Gasol il suo monumento vivente, leader spirituale della generazione anni ottanta, primo spagnolo a provarsi in una finale Nba. Ma dici Gasol e non puoi dimenticare Garbajosa. Come nel calcio: dici Torres e devi aggiungere Villa.
Il resto, nel pallone come nel basket, è squadra, collettivo, cioè culto del gruppo, non della stella solitaria. Le stelle stanno altrove, ma illustrano una magnificenza sportiva. Ci sono la bella e la bestia. La bella, Gemma Mengual, la sincronetta che agli europei di nuoto ha razziato ori insieme alle compagne. La bestia: il brutale Nadal, quattro volte campione del Roland Garros. Alberto Contador, vincitore di Tour e Giro, ultimo erede di Miguel Indurain, senza dimenticare Oscar Freire, tre volte campione del mondo. Nella moto eravamo rimasti ad Angel Nieto, ed ora stanno spopolando Dani Pedrosa, un ragioniere del piazzamento in lotta per il titolo, e Jorge Lorenzo, il rampante di turno.
E quando non ce la fanno da soli, importano tecnici e vincono. L’Italia ha prestato un ct alla nazionale della pallavolo e quelli sono diventati campioni del mondo nel 2007. Oggi Andrea Anastasi è tornato da noi, con i problemi che ancora stiamo scontando. Il medagliere delle nazionali è ricco e soprattutto vario: oro mondiale della pallamano nel 2005, sport di grande attrazione, non foss’altro perchè vi gioca il genero di Re Juan Carlos. La pallanuoto ha conquistato il mondiale nel 2001, l’europeo 2006 e l’anno seguente il bronzo mondiale. Il calcetto ha raccolto due mondiali e due europei.
Il calcio ha completato l’operazione rinascimento e sradicato la maledizione dell’eterna incompiuta. Storicamente la Spagna ha sempre avuto gioco piacevole, votato all’attacco, qualità tecnica. Il lavoro di Aragones, la forza delle punte e la qualità dei centrocampisti hanno cambiato faccia alla maledizione. Qualcuno ha visto in Raul, monumento madridista lasciato a casa, una sorta di portajella. Meglio pensare che il quadrilatero magico del centrocampo abbia compiuto il miracolo. Non a caso Xavi Hernandez è stato eletto miglior giocatore dell’europeo, David Villa ne è stato il cannoniere, Marcos Senna ha miscelato il piede brasiliano allo spirito spagnolo. I segnali di tanta ricchezza c’erano: nel calcio internazionale giovanile dal 2000 ad oggi la Spagna ha vinto 9 titoli internazionali, i club hanno conquistato tre Champions (due il Real, una il Barcellona), tre coppe Uefa, tre supercoppe, un titolo intercontinentale.
E i giocatori spagnoli all’estero sono leader nelle loro squadre.Dunque, nei fatti, la Spagna è la più forte nazione d’Europa negli sport di squadra, ha campioni che sembrano opere d’arte ed ha scoperto che Zapatero non porta sfortuna. Ed ora ogni volta ripeterà: vamos a ganar.
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