Luigi, l'altro De Gregori che canta la rabbia folk

Dopo una serie di album sotto pseudonimo, il fratello di Francesco "recupera" il vero cognome e dice: "Non ho più ansie da identità"

Luigi, l'altro De Gregori che canta la rabbia folk

«Luigi il crudele era caduto dal cielo...il girovago, l'imprevedibile che aveva per dimora la ferrovia e per atelier lo zaino...Luigi, lo spensierato, il suo sguardo indugiava penosamente sulla carta anche per un'ora...Luigi montò sul suo velocipede sventolando il cappello, era già lontano. Notte, stelle. Luigi era in Cina. Luigi era una leggenda». Chissà se Luigi Grechi, o meglio Luigi De Gregori, è la reincarnazione del Luigi celebrato da Hesse ne L'ultima estate di Klingsor?
Come lui è uno spirito libero, una specie di fantasma senza volto che, smessi i panni da bibliotecario alla Sormani di Milano, s'è infilato quelli da «vecchio» cowboy per diventare un folksinger sulla scia di eroi del Greenwich Village come Ramblin' Jack Elliot e Tom Paxton. Anche Luigi si mimetizza, si fa chiamare Grechi (cognome materno) per non portare quell'ingombrante De Gregori che caratterizza il fratello Francesco. Così, sotto pseudonimo, incide una serie di album, regala a Francesco Il bandito e il campione riservandosi il Premio Tenco per la miglior canzone del 1989, porta in giro la storia della beat generation al fianco di poeti come Ferlinghetti e Jodorowski. Ora finalmente, grazie al nuovo cd Angeli e fantasmi, abbandona ogni ritrosia e si presenta al pubblico col suo vero cognome in un lavoro semplice e al tempo stesso colto con alcuni vecchi brani riarrangiati, alcune nuove composizioni (il seguito de Il bandito e il campione) e cover come L'angelo di Lyon di Tom Russell. «Ora uso il mio vero cognome perché non ho più ansie d'identità - racconta - da giovane cerchi di differenziarti da tutti, dopo tanti anni so di essere me stesso, cioè diverso dagli altri».

Luigi De Gregori nuovo nel nome ma fedele all'etica del folksinger da strada alla Woody Guthrie e ancora più indietro, alla Carter Family, di cui Luigi ha preso Jimmy Brown the Newsboy trasformandola nell'accorata Ultime della sera... Una coerenza che alla lunga paga o si paga? «Paga perché la mia musica non rende conto a nessuno. Si paga in termini di vendite e notorietà. Ad esempio non ho mai fatto una tournée, neppure due concerti consecutivi. Ma io non mi aspetto mai granchè dal mercato, ho un pubblico fedele e mio fratello dice che il successo è un incidente». Già, fu un «incidente» la sera in cui Luigi portò il fratello al Folkstudio. Francesco lo ricorda così: «Era stato proprio Luigi a portarmi al Folkstudio. Lui ci suonava già da un po' di tempo, aveva il suo repertorio composto principalmente da canzoni country americane, sapeva suonare il fingerpicking in modo eccellente e aveva fatto conoscere al pubblico romano le cose di Woody Guthrie e degli altri interpreti di quel genere allora quasi sconosciuto in Italia. Non ricordo molto di quel mio lontano debutto, tranne che era molto freddo ed ebbi qualche difficoltà con la chitarra per via delle dita intirizzite».

Ma allora quali sono le differenze artistiche fondamentali tra i due fratelli. Luigi senz'altro è più legato al mondo country. «Differenze fondamentali non ce ne sono. Francesco ha una band che gli dà una dimensione più pop e cantautorale. Io sono un folksinger non incasellabile nel country sdolcinato di Nashville né nella categoria del cantautore di protesta. Del resto nessuno copia ma tutti ci ispiriamo a qualcosa. Al Folkclub ho incontrato Dave Van Ronk, un giovane Bob Dylan, ma sono anche influenzato da cantautori francesi o cubani come Polo Montanez».

La musica di oggi non incontra molto i suoi favori: «La musica sta divorando se stessa. Forse sono invecchiato ma non c'è niente che mi emoziona come quelle cose degli anni '60 e '70. È tutto troppo prevedibile, ascolti Mumford & Sons e capisci subito da chi hanno preso, è sempre più difficile essere originali». Da giovane lo ritenevano un cantautore impegnato: «Qualunque cosa volesse dire, io ho sempre descritto la realtà e cantato cose che fanno pensare, e le cose che fanno pensare sono sempre le più estremiste. Per scrivere cose semplici bisogna leggere molto.

Io sono partito da Steinbeck e Sinclair Lewis per arrivare a Cormac McCarthy ma ora sto rileggendo Chiara e Buzzati. Canto i perdenti? Che gusto c'è a raccontare chi vive facendo le scelte giuste o seguendo le regole del gioco?».

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