«Il jazz è volubile come una donna, devi viverlo, amarlo od odiarlo ma viverlo se lo vuoi comprendere». Così mi diceva oltre quarant'anni fa Franco Fayenz, re della critica musicale jazzistica (ma non solo) scomparso l'altro ieri alla veneranda età di 92 anni, quasi tutti dedicati alla musica. Da allora ho fatto mio quell'insegnamento di Franco, che conobbi da ragazzino negli anni Settanta e che presi a frequentare il decennio successivo quando firmò (e lo ringrazierò sempre) la prefazione di un mio libro.
Lui ne aveva scritti tanti, come I grandi del jazz (1961) dove raccontava la storia e soprattutto la musica dei giganti del genere, aveva curato la versione italiana dell'autobiografia di Duke Ellington La musica è la mia donna e più recente aveva revisionato il classico Jazz di Arrigo Polillo aggiungendo decine di schede di jazzmen. Fayenz era un uomo elegante (si narra discendente da Emilio Salgari), affabile e simpatico anche se un pochino permaloso, dalla battuta sempre pronta e con un debole per le belle donne, con cui era di una galanteria estrema. Nato a Padova nel 1930 si laureò quasi forzatamente in Giurisprudenza, ma il fuoco sacro della musica lo colpì subito e si mise ad organizzare concerti per la società «Amici della musica». I musicisti li conosceva bene e li frequentava, addirittura nel 1965 portò da Milano nella sua Padova il «problematico» pianista Lennie Tristano, instaurando con lui un rapporto che sarebbe durato per tutta la breve vita del pianista. Visse la scena a cavallo tra il bebop e il cool e a Milano - dove oramai viveva e visse tutta la vita - era di casa al mitico Capolinea frequentando personaggi come Chet Baker.
Le sue critiche acute non prescindevano mai dai giudizi sul lato umano dei personaggi che incontrava e intervistò più volte boppers come Charlie Parker e Dizzy Gillespie.
Fayenz ha scritto molti anni per il Giornale, passando poi al Foglio e al Sole 24 ore e per il mensile Amadeus. Il suo ultimo articolo, quando era già gravemente malato, uscì l'anno scorso su Musica Jazz ed era un lungo e ponderoso ritratto del Modern Jazz Quartet.
I meno giovani lo ricorderanno popolare conduttore radiofonico che - nel cuore della notte - dispensava jazz quando questa musica veniva abiurata da tutti i media. Arrivò anche in tv (in bianco e nero) con un programma insieme a Franco Cerri.
Vero professionista, amava la musica per la musica e tante sere attraversava la città, a 80 anni suonati, per venire al Blue Note come quella notte che trascorremmo con Chick Corea, che del Blue Note di Milano fu uno storico protagonista.
Molto considerato dall'establishment, dal 1998 al 2002 fu consulente del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e membro della Società Italiana di Musicologia e della Società Italiana di Musica Afroamericana.Ci mancherà molto, e quando ascolteremo un brano jazz non potremo fare a meno di pensare a lui, al suo giudizio e alla sua libertà di pensiero.
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