Poi però inizia Adele. Nel senso che inizia a cantare e tutte le chiacchiere passano in cavalleria. Ciao ciao. Dopo le voci, ora tocca alla voce. Finite la sarabanda promozionale, le interviste con Oprah Winfrey e la ola social, oggi esce il disco di Adele, che si intitola 30 e arriva sei anni dopo 25, un disco da record se non altro perché è stato il primo a vendere oltre tre milioni di copie in una settimana soltanto negli States. E anche queste dodici nuove canzoni hanno le melodie in regola per stabilire nuovi primati perché sono trasversali, non hanno età e, soprattutto, vanno oltre le classificazioni di genere. Per capirci, 30 è genericamente un manuale di «soul bianco» che è stato impaginato con una produzione perfetta, pulita, molto radiofonica, non troppo indulgente con i bassi o i campionamenti che piacciono tanto alle (altre) popstar che piacciono. È un disco che gira intorno alla voce, allo straordinario strumento che ha trasformato questa trentatreenne di North London in una macchina di primi posti, iperboli, applausi.
Al centro di tutto ci sono i sentimenti, ma questo non è un «divorce album», non è un disco incardinato sui dolori del divorzio da Simon Konecki, con il quale è stata sposata per un solo anno dopo 8 di fidanzamento. E pure i problemi di bilancia sono un corredo marginalissimo dei testi, nonostante siano uno degli snodi focali di tutto il bla bla intorno a questa popstar anomala, più elegante nello stile che nel guardaroba, ferocemente impegnata a spostare sempre più in alto, e sempre più avanti il limite della sua voce. Al di là del singolo Easy on me, forse un po' troppo didascalico nonostante la pulizia nell'interpretazione, il brano cardine è probabilmente My little love, e non solo perché in alcuni passaggi si ascolta la voce infantile di suo figlio Angelo. È il manifesto del disco perché accenna alla rinascita («Sto tenendo duro») dopo aver attraversato la melma del dolore, dello sbriciolamento del matrimonio e della perdita del padre già perso per tanti anni causa alcolismo. E forse questa voglia di rinascita passa anche per le iniezioni di elettronica che spuntano a sorpresa qui e là (Cry your heart out, ad esempio) ma restano garbate, mai invasive (vedi Oh my God), sempre rispettose del «codice Adele», ossia le emozioni innanzitutto. È la voce il «Virgilio» di questo disco e di tutta la carriera di Adele Laurie Blue Adkins, nata il 5 maggio (del 1988), giorno dell'«ei fu siccome immobile», e cresciuta nell'enfasi dell'interpretazione e della centralità dei toni, del colore, della forza coinvolgente delle parole cantate.
La Adele riconoscibile al cento per cento è quella di I drink wine, ossia piano e voce, oppure Woman like me, voce e chitarra, tutte intarsiate da performance vocali del tutto irrituali oggi, nell'epoca delle rime innanzitutto o del fascino perverso ma sterile della provocazione accecante, nel senso che toglie la visuale sul resto. Adele è quella che si ascolta in Love is a game, che è quasi cinematografica tanto è aperta e illuminata dagli archi, una sorta di lungo manifesto (oltre sei minuti, ormai è una rarità) dell'album 30 che sarà campione d'incassi ma per fortuna si sgancia dalle regole più stringenti del mainstream pop. Adele gioca sul talento, non sul resto, ed è quasi un peccato comprimerla negli schermi rigidi della promozione o del marketing. Ha un dono eccezionale e lo mette al servizio di belle melodie, niente di innovativo ma tanto di rassicurante. «Non penso, come persona, di avere ciò che ha il mio modo di cantare. Prendo questo dono da qualche altra parte e non so come riesco a farne uso. Ed è qualcosa di selvaggio, perché non credo di essere così profonda nella mia vita personale», ha detto a Oprah Winfrey sulla Cbs. Ma resta comunque un segnale importante perché, oggi più di ieri, Adele detta la linea.
Le voci più belle del pop internazionale sono femminili, non maschili. La sua. Quella di Beyoncé, esagerata e maestosa. Quella di Lady Gaga, capace di graffiare con Born this way ma pure di duettare con Tony Bennett, dicesi l'ultimo grande crooner vivente, 95 anni di classe.
E quella di Miley Cyrus, un mezzosoprano che canta da soprano un repertorio spesso selvaggio e ai confini del rock. Un poker di fuoriclasse nel quale Adele conferma di avere la marcia in più dell'essenzialità: lei è la voce prima di tutto e poi il resto. Una regola che puoi rispettare solo a una condizione: essere inimitabile.
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