«Adesso porto sul palco l'ironia triste della realtà»

RomaDirettamente dallo spazio, torna a Roma la «marziana» Laurie Anderson, con i suoi 66 anni e un bagaglio da artista totale. Cantante, polistrumentista, compositrice, fotografa, regista, poetessa, pittrice, scultrice, Lou Reed per marito, e molte altre chicche ancora, la diva della New York d'avanguardia dal bulimico talento divora le nuove tecnologie per creare melodie stranianti, animando l'inanimato, avvicinando l'alieno, concentrando in uno show tutte le bizzarrie della cultura americana. Avvezza allo sperimentalismo più radicale e architetta di infinite performance, con il singolo O Superman ha sconvolto i registri musicali anni Ottanta, ma quel suo robotico loop «ha-ha-ha-ha-ha» suona ancor'oggi incredibilmente moderno. All'Auditorium presenta il suo ultimo parto, Dirtday!, terza tappa di una trilogia di show (dopo Happiness e The End of the Moon) che vedono sul palco lei, sola e elfica, con violino elettronico, tastiera e la sua voce filtrata dal Vocoder che recita monologhi e esorcizza paure.
Cosa accadrà sul palco?
«Cose molto tristi. Spero di non deprimervi! Scherzi a parte, ho cercato di alleggerirmi con l'ironia: racconterò storie di desolazione ma anche barzellette sul Papa».
Le piace definirsi una «narratrice di storie». In Dirtday! parla di Obama e Darwin, ma anche del tuo cane. C'è un fil rouge?
«C'è nella ricerca di una struttura sottostante agli eventi, una spiegazione a quel che succede. C'è la crisi economica, i mercati autoreferenziali, la gente che nel bel mezzo degli Usa vive in una tenda, come i senzatetto di Lakewood, dei quali racconto la storia. C'è dietro Darwin, la sopravvivenza del più adatto? O forse è tutto più complicato. E Obama è solo un uomo: non può salvare il mondo».
La sua biografia è l'enciclopedia della musica: Philip Glass, Brian Eno, Peter Gabriel, John Cage, oltre a suo marito. Chi l'ha più influenzata?
«Senz'altro Philip Glass. Un compositore stupefacente, dalla vena inesauribile. Oltretutto, contro i topos dell'artista malinconico, è felice. E la sua arte non è sofisticheria: è natura. Un fiume in piena».
E quanto ai suoi progetti futuri?
«Sto lavorando a United States V. Comprenderà flashback dei miei passati lavori (United States I-IV). I temi saranno la guerra, il cambiamento climatico, il futuro digitale».
A proposito, spesso per descrivere la sua musica si evocano le atmosphere di Huxley e la cibernetica: c'è una sintonia con Andy Warhol?
«Non sono la donna-robot. E anche Wahrol era più zombie che cyborg. La nostra non è “tecnofilia”, ma la presa d'atto, con humour, che la tecnologia è un destino: dipendiamo dal suo tirannico non-stop. Ormai siamo tutti robotici».


È anche stata la prima artista ufficiale della Nasa (dall'esperienza è scaturito The End of the Moon, ndr). Pianifica di trasferirsi su Marte?
«Sono stata la prima e anche l'ultima, visti i tagli di budget. L'esperienza è stata grande fonte d'ispirazione. Ma preferisco rimanere sulla Terra».

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