Nel 1925, il ventiquattrenne surrealista Michel Leiris era finito in manette evitando così il rischio di finire linciato. C'era un banchetto poetico alla Closerie de Lilas e alcuni surrealisti avevano trovato il modo di trasformarlo in una manifestazione pubblica a sostegno delle tribù berbere, la cosiddetta Guerra del Rif che in Marocco opponeva i ribelli autoctoni alle truppe francesi del maresciallo Lyautey. «Viva Abd El-Krim! Abbasso la Francia!» aveva continuato a gridare Leiris da una delle finestre e fra la folla di dentro e quella che da fuori, prima curiosa, poi minacciosa, era andata formandosi, l'improvvisato urlatore si era trovato come schiacciato. «Abbiamo rischiato di farci ammazzare, ma davvero» aveva scritto entusiasta Louis Aragon a un amico: «L'hai visto nei giornali. Leiris è stato orrendamente pestato. È stato fantastico, terribile e meraviglioso».
L'Oriente era allora di moda, in una duplice e contraddittoria maniera. In opposizione a tutto quanto l'Occidente era, stava a indicare l'arte e il mondo primitivi, la sauvagerie e lo stato di natura, la contro-modernità, «l'Africa nera», in breve, dove il colore era soprattutto un metafora: rimandava alle profondità dello spirito e alla magia, l'inconscio, la ribellione e la trasgressione. Sull'altro versante, però, la parola d'ordine era civilizzazione, le colonie come missione e realizzazione di un compito, la Francia che rivelava l'Africa a sé stessa, le dava un ordine, ne assicurava un futuro.
Compendio, anch'esso contraddittorio dell'uno e dell'altro sarà quell'«Exposition coloniale internationale 1931» che appunto in quell'anno vedrà la luce con feste equestri e musiche coloniali, acquari e planisferi luminosi, esposizioni scientifico-artistiche, opere, oggetti e reperti, padiglioni etnologici e villaggi «feticisti», uomini e bestie, nonché, per molti versi, zoo umani: «indigeni selvaggi» esposti in gabbia accanto a animali esotici... A capo dell'Expo era quel Lyautey che ancora sei anni prima, nelle vesti di governatore militare del Marocco, era stato oggetto della gazzarra surrealista prima raccontata. Compendio e insieme proseguimento dell'Expo era la Mission Dakar-Gibuti che sempre in quel 1931 prendeva il via e avrebbe attraversato l'Africa in diagonale, dal Senegal all'Abissinia, passando per la Costa d'Avorio e il Dahomey, il Camerun e la Nigeria. Promossa da tre ministeri e da 21 istituzioni ufficiali, sovvenzionata fra l'altro dalla Fondazione Rockefeller, si proponeva «lo studio delle etnologie dei popoli primitivi» come «contributo indispensabile ai metodi della colonizzazione».
Nelle vesti di segretario-archivista, incaricato di inchieste sulle «società infantili, società senili, istituzioni religiose», era proprio Michel Leiris (1901-90) che in nome dell'anticolonialismo aveva capitanato quella gazzarra surrealista e ci aveva quasi lasciato la pelle. Siamo di fronte insomma a una coincidentia oppositorum che, anche se animata dalle migliori intenzioni, si sarebbe risolta in uno scacco, etnografico ed esistenziale, L'Afrique fantôme, uscito nel 1934, praticamente a ruota della spedizione.
Adesso che il libro torna finalmente in edizione italiana a quasi quarant'anni dalla sua prima uscita (L'Africa fantasma, Quodilibet, a cura di Barbara Fiore, con 40 fotografie della Missione Dakar-Gibuti, pagg. 748, euro 34), mantenendone la traduzione di Aldo Pasquali e il glossario, ma con un più ampio, esauriente apparato documentario e una presentazione altrettanto puntuale di Jean Jamin e una nota bio-bibliografica dello stesso Leiris, quello «scacco» si è nel tempo trasformato in documento storico e insieme opera d'arte. Ma, quando lo scrisse, chi era innanzitutto Michel Leiris?
Nato nel 1901, di buona famiglia, buoni studi, ma nessuno sbocco pratico, agente di commercio, chimico dilettante, rappresentante di libri, velleità poetiche, amicizie intellettuali nell'avanguardia dell'epoca, comunista e surrealista pentito, sposato dal 1926 con Louise Godon, un lavoro di segretario di redazione della rivista Documents, quando Leiris parte per l'Africa è un trentenne senza arte né parte. In crisi con sé stesso, affetto da depressione nervosa, è in cura dallo psicanalista Adrien Borel.
Di etnologia e etnografia, Leiris insomma ne sa poco o niente e l'Africa è in realtà e soprattutto un pretesto, «un furioso modo di cambiare aria», nonché una leggenda. Potrebbe essere l'inizio di un inquadramento professionale, potrebbe essere materia delle sue ambizioni di scrittore e di poeta. Il viaggio, insomma, «come un'avventura poetica, un metodo di conoscenza concreta, una prova, un mezzo simbolico per fermare la vecchiaia percorrendo lo spazio per negare il tempo».
Ciò che invece imparerà è che evadere vuol dire fallire, «ogni rapporto umano è possibile soltanto all'interno della propria civiltà», che nessun uomo «può sfuggire al proprio isolamento». Per dirla in altro modo, viaggiare vuol dire non lasciare mai il proprio «immutabile tormento interiore».
Tutto questo spiega bene il titolo, quell'Africa fantasma in quanto allusione da un lato all'esotismo artistico di cui la sua giovinezza si era nutrita, l'arte negra e il jazz, il tribalismo delle culture e Josephine Baker... Dall'altro alla delusione di occidentale in crisi rispetto alla possibilità, rivelatasi fallimentare, di un contatto autentico «con i loro abitanti», propedeutico a far di lui «un altro uomo più aperto e guarito dalle ossessioni». Era proprio tale delusione del resto a motivare, attraverso un titolo, il rifiuto di «una pienezza d'esistenza a quell'Africa in cui avevo trovato molte cose, ma non la liberazione».
L'essere il continente nero, stando a Leiris, «un fantasma», non impediva però ai curatori della Mission Dakar-Gibuti di ritenere che, al contrario, quell'Africa fosse più che reale, quasi in carne e ossa nel suo mettere insieme oggetti, tradizioni, miti, storia. Il «bottino» della spedizione, come verrà definito dai suoi ideatori, una volta terminata comprenderà 3600 oggetti, annotazioni in 30 lingue, un'imponente collezione di pitture antiche e moderne abissine, 300 amuleti e manoscritti etiopici, 60mila fotografie, 15mila schede... Nascerà anche da qui la definizione del libro di Leiris come un «libro maledetto», sconfessato dal capo della missione Marcel Griaule che vedeva ridotta al solipsismo più o meno distruttivo di uno dei suoi componenti quella che, di fatto, sarebbe passata alla storia come l'ultima grande missione coloniale intrapresa.
La «maledizione» in questione riguardava però anche altre cose. Nella sua ansia di oggettività, Leiris raccontava in fondo come gli etnologi interessati alle «culture altre» lo fossero comunque in una logica di sfruttamento culturale: rubavano i feticci e le statuette, lasciavano copie lì dove c'erano le pitture originali e che lo stesso Leiris lo raccontasse con un misto di colpa e di fierezza, finiva per aumentare lo scandalo: «Mi sono comportato come un avventuriero ma non me ne dispiaccio per niente. Ci sono sublimi oggetti che sarebbe mille volte più ignobile comprare che rubare. Non perdonerò mai all'Europa di distruggere a suo piacimento i soli paesi in cui mi sembra che potrei vivere». Uno dei «kono» rubati da Leiris finirà per far parte dei capolavori del Musée de l'Homme di Parigi.
Ciò che più o meno intenzionalmente ne usciva era insomma un'idea da «bianchi con il coltello in mano», eccitati e spinti proprio «dall'idea della profanazione». Come Leiris dirà in una lettera alla moglie: «Si saccheggiano dei negri col pretesto di insegnare alla gente a conoscerli e ad amarli, cioè, alla fine dei conti, di formare altri etnografi che andranno anche loro ad amarli e saccheggiarli. Un circolo vizioso».
Non praticando l'etnologia-etnografia, lasceremo qui da parte l'enorme mole di trascrizioni sul campo di cerimonie, iniziazioni, registrazione di linguaggi, eccetera di cui L'Africa fantasma è piena. Si sarà capito, del resto, che l'interesse del libro è altrove, cosa che Leiris aveva ben chiaro se non fin dall'inizio, di certo in corso d'opera: «Lavoro intenso a cui mi dedico con una certa assiduità, ma senza un briciolo di passione. Preferirei essere posseduto che studiare i posseduti. La conoscenza astratta non sarà mai per me altro che un ripiego». Via via che l'abito da avventuriero, «l'aspetto affascinante e profondamente segnato di un corsaro», si rivela sempre più fuori misura per lui, Leiris si rende conto che «non ci si avvicina molto agli uomini avvicinandosi ai loro costumi». E ancora. «Restiamo tristemente eguali a quello che siamo sempre stati». Sempre e comunque è l'estraneità quella che si impone e l'unico modo per sfuggirle è l'idea di «raccontare tutto», in una soggettività, «portata al parossismo» grazie alla quale raggiungere l'oggettività: «Scrivendo soggettivamente aumento il valore della mia testimonianza».
C'era in questo sforzo di spiegazione-giustificazione qualcosa di «pedante», come Leiris avvertirà nello scriverla, «di molto confuso».
Ma nei diversi strati di scrittura, schede, taccuini, note sul campo, riflessioni, racconti, discussioni, L'Africa fantasma ha un'originalità e una forza d'espressione umanissima e dolente nella sua disperazione, il naufragio dell'uomo bianco nell'indifferenza dell'Europa prime e più che dell'Africa.
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