Una storia d'amicizia, soprattutto. È quella che Gian Mario Villalta sviluppa in un romanzo denso di riflessioni intime e di osservazioni sulla natura umana: L'apprendista (Società Editrice Milanese, pagg. 240, euro 17). La storia di un rapporto tra due uomini anziani, il sacrestano Fredi e il suo «apprendista» Tilio. Siamo ai giorni nostri, in un paesone indeterminato costruito pensando a cittadine come Pordenone, Vittorio Veneto o Sacile. L'intento però non è quello di particolarizzare, ma all'opposto, di universalizzare. La stessa chiesa è una fantasia che può far pensare alla chiesa di Serravalle (Vittorio Veneto), dove in effetti c'è un dipinto di Tiziano, ma anche al Duomo di Pordenone, o ad altri edifici sacri contenenti le opere di Antonio de' Sacchis (detto appunto il Pordenone, coevo di Tiziano e ingiustamente oscurato dal confronto). L'autore conosce bene i luoghi, li ha vissuti, e valorizzati in quanto direttore artistico di Pordenonelegge, uno dei più bei festival letterari d'Italia.
La maggior parte dell'azione sembra dunque svolgersi in questa chiesa, però a poco a poco, per accumulo d'immagini, le vicende di un intero paese si intrecciano e si stratificano, così come le memorie dei due protagonisti. Il passato irrompe nelle loro vite, la cui aspettativa di futuro è breve. Quello che conta è che cosa li ha portati fino a lì. Colpisce l'assenza delle donne, o meglio la loro presenza solo nel ricordo. Per quanto siano state importanti nella vita di Tilio (meno in quella di Fredi), di loro rimane solo il rimpianto, e magari un po' di rimorso per le azioni compiute nei loro confronti, oppure omesse. A mano a mano che si accumulano i giorni, dalla primavera all'inverno attraverso un'estate torrida, il rapporto fra i due si approfondisce. Ma che cosa ci fa Tilio in quel luogo? E quali sono i suoi rapporti con il figlio Paolo, che è andato ad abitare lontano?
Più che ad una religiosità astratta, Villalta sembra voler far capo a una ricerca di senso, che può benissimo passare attraverso la mediazione delle Scritture e l'estetica dei rituali (si veda l'accostamento non casuale al periodo trascorso da Fredi in Giappone), ma punta in definitiva a una «letizia del cuore», un appagamento esistenziale dovuto alla capacità di fare i conti con la vita. «La verità è Dio, va bene, ma con le cose del mondo che cosa si fa?» pensa Tilio a un certo punto, quasi temendo di bestemmiare. Nei personaggi di Villalta si trova tutta la commedia umana. Mentre ruota attorno alla chiesa e alle sue funzioni, alle messe in suffragio e alle celebrazioni di matrimoni e funerali, il libro prende respiro dal passato e dal presente, dall'Italia postbellica a quella dell'immigrazione, dal boom economico all'approdo al terziario. Accanto all'eredità culturale e artistica sfarzosa (Venezia non è lontana) c'è il fiorire insensato delle rotonde stradali e degli ipermercati. Il tempo non sempre migliora le cose, sembrano pensare i due protagonisti, incerti se affidarsi alla fede rozza e campagnola di don Luigi o a quella forse troppo mondana di don Livio. Magari a nessuna delle due, quando si cerca una propria strada, rispecchiandosi l'uno nell'altro.
Fredi e Tilio, più che ai velleitari Bouvard e Pécuchet fanno pensare ai due old friends della canzone Bookends di Simon e Garfunkel: «Winter companions, the old men/ lost in their overcoats, waiting for the sunset» (compagni per l'inverno, i vecchi/ perduti
nei loro impermeabili, aspettano il tramonto). «Preserve your memories/ they're all that's left you» (conservate la memoria, è tutto quello che vi resta). Se la vita è romanzo, è ancora meglio quando un romanzo prende vita.
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