Ai Weiwei e Neshat, l'arte si trasforma in cinema

I due artisti nelle sezioni parallele con dei lavori particolari sugli immigrati e sulle donne islamiche

Ai Weiwei e Neshat, l'arte si trasforma in cinema

Usare il termine «contaminazione» non basta più. Meglio parlare di linguaggio geneticamente modificato, una corsa lungo i confini ibridi di una terra di nessuno. Certo, così è più difficile riconoscerne gli ambiti, eppure uno dei modi più interessanti di fare cinema incontra sempre più spesso le arti visive. Con una netta differenza rispetto al passato: un tempo gli artisti «usavano» il cinema come un mezzo plastico per una ricerca d'avanguardia che superava le regole della fiction e non nasceva per essere proiettato nelle sale. Oggi, invece, diversi artisti sono veri e propri filmmaker in grado di affrontare la sfida della grande distribuzione, autori di prodotti sintatticamente corretti, frutto di regia sapiente e coinvolgimento di un forte sistema produttivo.

Da una parte, dunque, artisti conclamati, che espongono a biennali e grandi musei, sbarcano ai Festival del cinema. I film di «artistar» come Ai Weiwei e Shirin Neshat sono tra gli eventi di punta della Mostra del Cinema di Venezia.

Il cinese è senz'altro una delle figure più discusse e controverse dell'art world. C'è chi lo ritiene un genio assoluto, chi invece un furbastro, un personaggio privo di scrupoli, cinico e sfrontato. Dopo aver sapientemente utilizzato Instagram, Ai Weiwei si butta nell'avventura cinematografica con un lavoro colossale, anche nella durata di 140 minuti, Human Flow, una docu-fiction incentrata (manco a dirlo) sul dramma dei migranti. Girato in 23 Paesi del mondo tra questi Kenya, Iraq, Giordania, Turchia, Grecia - l'artista si è mescolato a migliaia di disperati in cerca di un altro futuro, cogliendone soprattutto l'aspetto umano, certo compassionevole, registrando così il fallimento della globalizzazione se è pur vero che oltre 65 milioni di persone si trovano in questo momento a vivere senza una patria. Si fa raccoglitore di storie, racconti, vicende, aspettative per un futuro migliore, senza prendere altra posizione se non quella della compassione. Ascolta volontari, operatori, dialoga con loro, con uno stile registico da kolossal, patinato ed estremamente efficace. Considerando la sua fama, Human Flow verrà certamente distribuito. Come sempre, Ai Weiwei è abilissimo nel costruire un caso, e non è escluso che qualche premio lo tiri su.

Non è un esordio, invece, quello di Shirin Neshat, l'artista iraniana cresciuta a New York, che ha sempre incentrato la sua ricerca sulla difficile condizione femminile nei Paesi musulmani, come specchio della contraddizione tra slancio verso la modernità e conservare le antiche tradizioni di chiusura. Proprio a Venezia, nel 2009, vinse il Leone d'argento per la miglior regia con Donne senza uomini. Ora, mentre al Museo Correr è esposto il lavoro fotografico The Home of My Eyes, torna al Festival con Looking for Oum Kulthum nella sezione «Giornate degli autori». Raffinata come sempre, Neshat racconta la storia di una leggendaria cantante egiziana, sulla cui vita un'artista quarantenne di oggi, a sua volta in esilio, vuole a sua volta fare un film. Meta-cinema, insomma, che sceglie un simbolo di difficile emancipazione. Una vicenda dove il transfer tra le due figure si compie intrecciandosi con la trama e i personaggi.

Semmai ci fosse ancora bisogno di definire «che cos'è un'opera d'arte», ecco che questi lavori ibridi rappresentano certo una modalità estetica contemporanea. Ogni volta che l'arte incontra il grande pubblico si leva dalla nicchia specialistica.

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