In teoria l'idea era buona: fare un talent per aspiranti scrittori. In pratica Masterpiece, andato in onda domenica scorsa alle 23 su Raitre, è stata una melassa di banalità difficilmente superabile. E pensare che quest'estate ero stato convocato come possibile giurato, ora manderò un mazzo di fiori al produttore Alessandro Lostia per avermi scartato dopo aver ascoltato la mia spiegazione su cosa è la letteratura.
Tuttavia, bisogna riconoscere, è stato un masterpiece di comicità involontaria. Con «una giuria senza precedenti» formata «da scrittori tra i più importanti», come se il programma fosse destinato a un pubblico talmente analfabeta da poter scambiare per geni i seguenti tre giurati: Andrea De Carlo, Giancarlo De Cataldo e Tayse Selasi.
De Carlo interpretava il poliziotto cattivo, De Cataldo il poliziotto buono, la Selasi, bella e con le labbra scintillanti di lucidalabbra, posizionata al centro, è l'africana addetta alle pari opportunità letterarie. I tre hanno aperto bocca solo per dire le solite scemenze: ci vuole il cuore, non arriva l'emozione, non sento niente. De Carlo, in un guizzo professorale, se l'è presa pure con un ragazzotto, selezionato da loro stessi, per dargli dell'ignorante, come se gli altri fossero dei piccoli Proust: per fortuna la Selasi è intervenuta per dire a De Carlo quant'è cattivo.
Tutti gli aspiranti scrittori, comunque, li hanno scelti all'altezza dei giurati: il primo è stato in clinica psichiatrica, lo vedi e pensi che doveva pure restarci, e però è solo l'inizio di una galleria di casi umani e stereotipi culturali. La seconda è un'operaia che lavora in fabbrica e mantiene i figli e vuole diventare ricca con un libro in cui racconta che lavora in fabbrica e mantiene i figli. La terza una giornalista ex anoressica suicida mancata per la quale «scrivere è come fare pipì». Il quarto un ex tossico che vive per strada e così via. De Carlo: «Prima di leggere un autore leggo sempre le note biografiche». Quindi non deve aver mai letto né Proust né Leopardi.
Tra l'altro, proprio leggendo le note biografiche, i concorrenti hanno vite talmente tristi che questi geni di Masterpiece si inventano delle situazioni insolite per metterli alla prova, e dove li portano? Anziché al Ritz di Parigi o a fare shopping a Las Vegas li deportano uno in una balera tristissima, l'altro in un centro sociale, un altro in una comunità rom di un prete di nome Don Rambo (sic), cioè nei loro habitat naturali. Se ci fosse stato uno scrittore vero non avrebbe scritto una riga, avrebbe cosparso tutti con una tanica di benzina e gli avrebbe dato fuoco. Una certa Stazzitta commenta giustamente su Twitter: «Non sono mai stata così orgogliosa di non aver mai scritto un libro».
Attenzione perché le sparano talmente grosse che il vincitore «sarà stampato in centomila copie dalla casa editrice Bompiani». Se fosse Mastersex, per chi ne sa un minimo di editoria, sarebbe come promettere a un'aspirante ninfomane una prestazione di mille ore con un superdotato. Oppure Elisabetta Sgarbi ha capito male: era convinta Masterpiece sarebbe andato in onda nel David Letterman Show.
A proposito di Elisabetta Sgarbi: si capisce invece come sia lei l'eminenza grigia, il deus ex machina di Masterpiece, cioè: la presentano come «nota regista, scrittrice e anche editore della Bompiani». Un mix tra Federico Fellini e Simone de Beauvoir con l'hobby dell'editoria. Infatti Betty compare alla fine, come il boss finale di un videogame, nella Mole Antonelliana. Proprio nella Mole Antonelliana, forse noto monumento alla letteratura. Per andare su e giù nell'ascensore con il solito sguardo spiritato con un concorrente alla volta che le racconta la trama. A vederli non ci si crede, però resti a guardare perché speri in un colpo di scena, in un colpo in testa, in un colpo di arma da fuoco. Almeno che si stacchino i cavi dell'ascensore. Macché, tornano tutti a terra.
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