Benicio, il soldato indiano in viaggio tra i suoi incubi

Al Festival di Cannes applausi per "Jimmy P." di Desplechin sul rapporto di amicizia tra uno psicanalista anarchico e un singolare reduce di guerra

Benicio, il soldato indiano in viaggio tra i suoi incubi

Troppo freudiano per gli antropologi, troppo etnologo per gli psicanalisti, troppo poco psichiatra per gli ortodossi custodi della medicina mentale, Georges Devereux (ungherese d'origine, il suo vero nome era Gyorgy Dobo) fu negli anni fra le due guerre del Novecento, e poi nel primo decennio dei Cinquanta, una figura di spicco di quel mondo avventuroso che fra Levy Strauss da un lato, il dottor Kinsey dall'altro, portava il rapporto fra soma e psiche, fra corpo e anima, ben al di là dello stretto lettino in cui la psicologia borghese di Vienna aveva pensato di limitarlo. Insofferente nei confronti di gerarchie e procedure, molto anarchico e un po' dissacratore, bon vivant e seduttore (sette mogli ufficiali, molte «affettuose amicizie») Devereux si guadagnò sul campo la popolarità di cui poteva godere un «fuorilegge» della comunità scientifica. Lo si chiamava quando le terapie cosiddette ufficiali avevano dato forfait, ma chi lo chiamava era di solito qualcuno che lo faceva a proprio rischio e pericolo.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il Winter Hospital di Topeka, nel Kansas, divenne la Mecca della psichiatria: ospitava quei reduci che non riuscivano a integrarsi, segnati da traumi bellici fisici e psichici. Nel 1946, vi fu ricoverato un indiano Piede nero, Jimmy Picard, caporale dell'esercito americano durante la campagna di Francia: soffriva di vertigini, cecità temporanea, perdita d'udito, cefalee. Fisicamente, non c'era nulla in lui che potesse giustificare quelle mancanze; psicologicamente, nessuna delle cosiddette cause classiche era in grado di spiegarle. Così, a Picard venne diagnosticata una sindrome schizofrenica, ma prima di considerarla definitiva, l'equipe del Winter Hospital decise di rivolgersi a chi, per la sua eterodossia e conoscenza degli usi e costumi delle tribù indiane, era in grado di muoversi come a cavallo fra epoche, culture, lingue. Devereux, appunto, che fra le tante cose aveva consacrato la sua tesi di laurea alla tribù dei Mohaves: riti d'iniziazione, simbologia, spiritualità.

Dietro l'incontro fra un indiano con turbe mentali e un europeo fuggito prima dall'Europa dell'Est, per motivi razziali e politici, e poi dall'Europa dell'Ovest per fatti scientifici e caratteriali, ci fu in realtà l'incontro fra due deracinés in cerca di una integrazione. Picard aveva combattuto per il suo Paese, ma si sentiva ancora considerato indiano e non americano; Devereux riteneva gli Stati Uniti uno straordinario terreno di ricerca per i suoi studi e insieme il paradiso per chi, non avendo mai fatto parte di un establishment, faticava a imporsi professionalmente. Di tutto ciò, il libro Psicoterapia di un Indiano delle Pianure, da lui pubblicato qualche anno dopo, e ancora oggi periodicamente ristampato, dà conto con pagine ricche di interesse scientifico, ma anche di tensione narrativa.

Trasformato in film, quel saggio è arrivato ieri sul grande schermo di Cannes, in concorso nella selezione ufficiale. Per la regia di Arnaud Desplechin, Jimmy P., questo il titolo, vede come protagonisti Benicio del Toro e Mathieu Amalric, rispettivamente nella parte del paziente e del medico. Se Desplechin è alla sua nona esperienza festivaliera, i due attori sono alla quinta il primo, alla tredicesima il secondo. Tutta gente, insomma, che sa il proprio valore e conosce troppo bene Cannes per farsene sorprendere.
Jimmy P. è, naturalmente, un film di volti e di dialoghi. Per i primi occorrono occhi a volte timidi, a volti disperati, come quelli di Del Toro, febbrili e infantili come quelli di Amalric. Per i secondi, il libro di Devereux, a detta dello stesso Desplechin, è «la summa in materia. Uno scambio serrato, senza trucchi, fra due persone che non si conoscono, ma sono disposte entrambe a mettersi in gioco. L'uno per salvarsi e insieme per conoscersi, l'altro per capire e insieme ottenere un risultato». Girato negli Stati Uniti, Jimmy P.

è una sorta di giallo psicologico, un viaggio nei sogni e negli incubi alla ricerca di uno o più colpevoli. È anche la storia di uno scambio culturale e insieme di una strana empatia fisica che si sviluppa fra l'esile professore e il suo gigantesco paziente L'idea che ci si possa capire sulla base di una comune dignità.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica